mercoledì 29 febbraio 2012

"La cura" di Prisca Turazzi


Punteggio 211/250  (8.4 voto)

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Mi osserva, il suo volto è inespressivo. Aspetta che io gli risponda. Le mie labbra sono socchiuse, ma dalla gola non risuona alcunché. Mi sembra come se ci fossimo immobilizzati in quell’attimo. Arriccio le dita dei piedi e mi convinco che il tempo continua a trascorrere. Detesto questo bianco e il verde sbiadito del pavimento. Detesto le lenzuola economiche su cui sono accucciata. Detesto la mia camera, detesto la finestra con le inferriate.
Alzo gli occhi, guardo oltre lo psichiatra.
Il demone mi sorride. È solo un’ombra, ma vedo i suoi occhi rossi e le fauci snudate in quella smorfia di soddisfazione. Detesto anche lui. Vorrei che sparisse. Anche lo psichiatra vorrebbe che smettessi di vederlo. È così, anche se non lo dice mai. Mi chiede come sto, che giorno è secondo me, se ho fame. Poi qual è il mio nome e a quel punto non so mai la risposta.
Dopo qualche altro istante, ammetto di non sapere come mi chiamo.
Il demone sorride ancora di più, il dottore si mostra comprensivo. Non ricordo come si chiama. So cosa sono i nomi, so quali sono e ne conosco molti diversi. Eppure non so come si chiama il dottore, né mia madre, né mio padre, né mio fratello, né il mio cane… Secondo me, è colpa di quel demone: mi confonde, vuole far credere a tutti che sono pazza. C’è riuscito, dato che mi hanno trasferita in questo manicomio. La mamma diceva che sarebbe stato confortevole, ma forse voleva solo convincermi che lo sarebbe stato.
Non lo so.
Lo psichiatra – qualunque sia il suo nome – si alza, risistema la sedia pieghevole di legno sotto la scrivania, mi saluta ed esce dalla camera. Ormai non aspetta più che gli risponda, sa che dopo quella domanda smetto di parlare. Continuo a chiedermi come mi chiamo, ma la risposta mi sfugge. La succhia il demone. Lo guardo, come sempre.
Mi chiedo se mi considerino pazza per il demone, o per il fatto dei nomi.
Mi sento mancare.

Toc.

Sono a casa.
È il primo pensiero che mi passa per la mente. Scatto a sedere. Sono nel mio letto, sotto le morbide e calde lenzuola e il copriletto blu. Il soffitto inclinato verso destra, le due finestrelle a venti centimetri dal pavimento raccolgono un po’ della luce del sole. Dei trapezi dorati si stendono sul parquet e sui miei vestiti sporchi. La mamma si lamenta sempre per questo disordine. Mi riprometto di ammucchiarli almeno sulla poltroncina accanto all’armadio.
Ho fatto un sogno strano.
«Come ti chiami?»
Mi volto. Sulla parete più alta, alla mia destra, è disegnata un’ombra dagli occhi rossi e i denti bianchi, snudati in un sorriso compiaciuto. Apro la bocca per rispondere, ma mi blocco. Di nuovo, non so la risposta. Non la so mai. Lo fa apposta a chiedermelo. È così soddisfatto della maledizione a cui mi ha condannata. Gli piace vedermi affannare, lo delizia.
«Sparisci» replico e mi alzo dal letto. Sento la mamma chiamarmi, anche se non distinguo il nome che usa. Esco dalla mia stanza, scendo i gradini per andare in cucina. Sento l’odore del latte caldo, del pane riscaldato. Mi risistemo la camicia da notte e mi fermo. Il tessuto è bagnato, abbasso lo sguardo sulle mie mani. Sono rosse. Sono macchiate di rosso, come la camicia da notte. Anche il mio viso è umido, sui gradini ci sono strisce rosse e briciole di materia organica.
Contro lo spigolo dello scalino, dopo quello su cui mi sono fermata, si è seccato un grumo giallo e compatto e ciuffi fulvi. Sento che ho qualcosa sotto le dita del piede destro. Il mio respiro trema, si è fatto flebile. Distanzio le mani e sollevo il piede, indietreggiando contro il corrimano. C’è della poltiglia rosa, un cordone sfilacciato di carne e un sottile strato bianco. Al centro di esso, distinguo l’iride castana e il nero della pupilla.
Mi manca il fiato. Alzo gli occhi e il demone è lì, pochi scalini più su.
«Non è reale. Sei tu a farmi credere che lo sia.» La mia voce è un sussurro. Non importa, lui mi può sentire sempre e comunque. Deve essere colpa sua. Il demone sorride ancora, scende qualche gradino e mi fa cenno di voltarmi. Obbedisco, sono costretta ad assecondarlo.
Lo rivedo alla fine della scala, aspetta che lo raggiunga.
Scendo uno scalino, il tallone scivola oltre lo spigolo, picchio la natica sinistra, mi aggrappo ad una delle colonne della balaustra. Chiudo gli occhi. I gradini grattano la pelle del fianco, il ginocchio destro colpisce il legno con forza, sento una fitta esplodere dal gomito e attraversarmi il braccio. Sono di nuovo ferma.
Qualcuno mi chiama.
«Che cosa è successo?» mi chiede mamma. Ascolto i suoi passi attraversare l’ingresso e salire i pochi gradini che mi erano rimasti da scendere. Riprendo a respirare e le lacrime scendono copiose. Sono stanca di tutto questo. La gola mi brucia, la testa mi gira e mi sembra sul punto di esplodere. Ho caldo e brividi percorrono il mio corpo, provocando una leggera pelle d’oca. Mi stendo sulla schiena e apro gli occhi.
Sopra di me incombe il demone, mia madre è sparita. La sua risata scuote i miei muscoli, rimbomba nelle orecchie.
«Basta!» grido con tutto il fiato che ho in gola.

Mi lancia delle occhiate e fingo di non accorgermene. La scenata di stamattina l’ha spaventata a morte. Per fortuna, papà era già uscito per andare in banca, altrimenti sarebbe venuto anche lui e sarebbe stato tutto ancora più umiliante. Mi stritola la mano nella sua e mi strattona, anche se non oppongo resistenza. Non mi ha permesso di fare colazione. La mia pancia brontola, affamata. Abbasso lo sguardo, sono mortificata. È la seconda volta in una settimana che mi costringe ad andare dal medico. Attraversiamo in fretta la strada, subito dopo il passaggio di una carrozza. I nostri abiti stropicciati insospettiscono un poco le altre persone.
Mi accorgo solo al secondo attraversamento che non mi sta portando dal dottore. Stiamo uscendo dal centro della città e comincio ad avere paura. Nonostante i miei diciotto anni, comincio a tremare. Sento il vento gelido schiaffeggiare il mio viso ed insinuarsi nel colletto. Alzo gli occhi e scopro che la strada è vuota, i negozi sono chiusi. È buio e i lampioni sono accesi. Entriamo in un banco di nebbia. D’un tratto non sento più la mano di mia madre stringere la mia.
Mi fermo. Non distinguo nulla, solo un muro di nebbia e il lampione sotto il quale sono paralizzata.
Comincio ad indietreggiare. Forse posso uscire da lì, tornando sui miei passi. Mi volto, comincio a correre. Il cappellino scivola e scioglie la capigliatura. Afferro la gonna, per non inciampare. Gli stivaletti stanno calpestando delle pozzanghere. M’immergo nel buio, non ci sono più lampioni. I miei passi affondano in qualcosa di limaccioso. Più proseguo, più sprofondo nella melma.
Il vestito s’inzuppa, ho freddo. Mi fermo di nuovo. Il respiro risuona nel silenzio.
Due occhi rossi squarciano l’ombra. Apro la bocca per gridare, ma una mano mi afferra la testa e mi spinge all’indietro. M’immergo nell’acqua.

Riemergo con un respiro che raschia la mia gola. I cubetti di ghiaccio scricchiolano, cozzano contro le pareti in ceramica della vasca. Ho delle leggere convulsioni per il freddo. Non sento più le dita dei piedi. Cercò di afferrare i bordi della vasca, ma delle donne vestite di bianco mi afferrano i polsi e li trattengono sotto l’acqua gelida. La mano che mi teneva la testa si solleva. Inspiro ed espiro a fatica, scossa dai brividi. Sono in una stanza color panna, di nuovo il pavimento verde sbiadito. C’è un carrello ricolmo di asciugamani piegati.
«Lasciatemi!» esclamo, la mia voce è stridula. Un paio di mani si posano sulle mie spalle e mi spingono di nuovo sotto l’acqua. Faccio in tempo a prendere una boccata d’aria. Chiudo gli occhi.
Poi lo sento.

Toc.

Gli occhi rossi mi fissano.
«Parliamone. Ti va?» propongo.
Il mio corpo è scosso dai brividi, la mente stretta in una morsa di desolazione. È notte. I raggi della luna attraversano la finestra raccogliendosi in fette rettangolari e disegnano listello azzurri sul pavimento. Tutto il resto è in ombra. Tutto il resto è ombra. Tutto il resto è lui.
Socchiude la bocca e spuntano i denti bianchi.
«Come ti chiami?» mi domanda.
«Perché continui a chiedermelo?» replico. Sono stanca di sentirgli dire solo questo.
«Verifico che tu non sia rinsavita» risponde con semplicità. Comincio a sentire il suo respiro, qualcosa di caldo mi avvolge. Percepisco l’odore sulfureo dell’Inferno. Si sta facendo più vicino.
«Come potrei? Sono anni che mi tormenti. Non ricorderò mai il mio nome.»
Il demone sorride, le fessure rosse s’ingrandiscono fino a coprire quasi tutta la mia visuale. Non reagisco, non servirebbe. Almeno ora sono sola e non rischio di fare del male a qualcuno. Fatico a sopportare il ricordo della mia mano che affonda il coltello nella gola del cane. Sento ancora i suoi guaiti, certe notti.
«Te lo ricorderai e, quando accadrà, io sparirò.»
Alzo il mento, il cuore batte forte per una manciata di attimi. Punto il mio sguardo nel mezzo di quegli occhi. Mi chiedo se sia per la disperazione, ma una buona parte di me sembra essere cosciente della veridicità delle sue parole. Mi stringo nella camicia del manicomio.
«Mi stai dicendo che una di queste cure si rivelerà efficace?» chiedo. Mi sembra di avere le orecchie otturate, eppure la sua voce mi arriva chiara al cervello.
«Sì», risponde, «e no».
«Divertente» sbotto ironica.
«Sono d’accordo.» Sembra sincero, sta gongolando. Non pare abbia colto il sarcasmo, ma non mi sorprende. Da anni mi assilla e ormai è chiaro che il suo senso dell’umorismo sia ad un livello diverso dal mio. Il sangue, il dolore, il tormento: si ciba di tutto ciò che la morale umana condanna. In un certo qual modo, comincio a comprenderlo, a condividerlo. Se potessi, anche io in questo momento mi svagherei nel torturare qualcuno. Sfogare la frustrazione di una vita distrutta, irrimediabilmente spezzata. Sento che sto diventando come lui.
«Perché mi lasceresti andare, in quel caso?» chiedo ancora. Ho voglia di farlo parlare, sono stanca del suo sguardo che mi segue ovunque nel silenzio. Non dormo da tre giorni.
«Tutto ha un termine» risponde, ora pacato.
«I demoni sono immortali?» insisto. La mamma mi diceva, quando ero piccola, che i demoni sono come gli angeli, ma di natura malvagia. Gli angeli sono eterni, quindi ho sempre pensato che avrebbero dovuto esserlo anche i servi del Male.
«No», sogghigna, «e sì». Non riesco a capire se mi prende in giro oppure intende davvero ciò che dice. Porto le gambe al petto e le avvolgo con le braccia. Gli occhi rossi tornano ad allontanarsi, a diventare fessure nel buio. I denti spariscono.
Cerco di farlo parlare ancora. «Perché io?»
Aspetto. Non risponde, ha deciso di aver detto abbastanza. Vuole tornare a svagarsi, ad osservarmi. Vuole riprendere il gioco.
Attendiamo la stessa cosa: che io ricordi come mi chiamo.

Sto correndo, costeggio un fiume. Il cuore mi sta scoppiando nel petto, il respiro raschia la gola e produce un sibilo penetrante. Sono in camicia da notte, i miei piedi nudi calpestano la ghiaia della strada di campagna. Mi lancio un’occhiata alle spalle: sono ancora dietro di me. Serpeggiano tra le coltri di nebbia. Non ne ho mai visti così tanti. I demoni. I loro occhi rossi sono l’unica cosa che dà colore al mio terrore. Avevano tentato di afferrarmi nella camera del manicomio, di trascinarmi nell’ombra sotto il letto. Sono scappata, non ho il tempo di chiedermi come.
Devo solo correre.
A causa della nebbia, sono fradicia e ho freddo. Ho sempre freddo quando sono insieme al demone. Ho anche paura. Forse sto sognando, non sarebbe la prima volta. Dopo tanti anni che sono succube di quell’ombra, so che potrebbe verificarsi qualsiasi possibilità. Lui può creare dal nulla qualsiasi illusione. A volte, però, non sono illusioni. Non mi posso permettere di dare le cose per scontate.
Se resto sull’argine, la situazione rimarrà la stessa. Sono sfinita, sul punto di crollare a terra. Devo cambiare qualcosa. Abbandono lo sterrato e prendo a scendere l’argine, inoltrandomi nell’erba alta. Inciampo e cado sulla spalla sinistra. La fitta di dolore mi offusca la vista. Mi rimetto in piedi e riprendo ad attraversare il pendio. Trattengo lo sguardo davanti a me, ma con la coda dell’occhio vedo le ombre seguirmi.
D’un tratto, il demone si materializza davanti a me. Pianto i talloni a terra, scivolo e mi ritrovo stesa sul terriccio. Lo fisso, il sibilo del mio respiro è l’unico rumore. Lui si china su di me, i suoi occhi sembrano avvolgermi.
«Ti prego» balbetto, «abbi pietà di me». Sto piangendo, sento le lacrime scivolare sugli zigomi fino alle orecchie. La sua bocca spunta nell’ombra e il puzzo di zolfo mi annebbia la mente. Vengo avvolta da un calore insopportabile, annaspo.
«Non è me che devi pregare» replica. Si risolleva e mi afferra la caviglia destra. Guardo oltre di lui: c’è una buca nel terreno. Sembra uno squarcio e la luce non riesce ad entrarvi. Il demone comincia a strascinarmi nell’erba umida. Cerco di afferrare i ciuffi che mi sembrano più resistenti. Pianto le unghie nel terriccio, le sento piegarsi. Il mio sguardo incatenato a quel buio nel terreno. Nella buca compare una coppia di occhi rossi, poi un’altra e un’altra ancora. I demoni mi sorridono, mi attendono.
«No! No!» grido con tutto il fiato che mi è rimasto. Mi volto e torno ad aggrapparmi all’erba o a qualsiasi cosa che sporgesse. Il demone è troppo forte, non riesco nemmeno a rallentarlo. Lancio strilli più che posso. Se solo qualcuno mi possa sentire, forse non me ne sono mai andata dal manicomio. Chiudo e gli occhi e mi concentro su quell’unico desiderio, con la piccola speranza che ciò annulli l’illusione.
Sento altre mani afferrarmi le gambe e trascinarmi. Il calore torna a cuocere la pelle, la puzza di bruciato è soffocante. Le mani scalano il mio corpo, mi ritrovo avvolta da esse. Continuo a gridare, continuo a pregare.
Qual è il mio nome?

«Come ti chiami?» mi chiede per l’ennesima volta lo psichiatra. Sono distesa sul letto del manicomio. Le manette di cuoio mi graffiano la pelle dei polsi e delle caviglie. Il sudore inasprisce quelle abrasioni. Ho caldo, respiro a fatica. Lui è sul soffitto e assapora la mia agonia.
«Abbiamo parlato con i tuoi genitori» lo sento riprendere. Nessuna domanda: mi preoccupa. Di rado aveva pronunciato delle affermazioni. «Le cure non stanno funzionando, ma è ancora possibile una soluzione.» Si ammutolisce per qualche istante, il sorriso del demone si allarga. «Le tue condizioni non hanno fatto altro che degenerare, da quando sei qui. Abbiamo tentato di tutto perché tu riacquistassi la sanità mentale, ma i danni sembrano irreversibili. A questo punto, possiamo darti solo la possibilità di acquietarti per sempre.»
Il demone sta ridendo, i suoi grugniti tuonano nelle mie orecchie. Non ho le energie per avere paura, per voler comprendere a cosa s’intenda il dottore. Ho caldo, la mia gola è secca. Voglio solo che finisca e lui me lo ha promesso: un giorno se ne sarebbe andato ed io avrei ricordato chi sono. Deve essere quella, la cura che mi avrebbe liberato. Deve esserlo per forza.
Vorrei rassicurare il dottore, ma le mie labbra sono serrate. Le avevano cucite i demoni. Le infermiere e lo psichiatra non riescono a vedere il filo; nemmeno i miei genitori. Non riuscivano a spiegarsi come facessi a resistere quando mi costringevano a mangiare o a inghiottire le pillole. Questa mattina hanno tentato di forzarmi le labbra. Il filo ha tagliato la mucosa interna. Credono che l’abbia strappata con i denti.
Non mangio da due giorni, non sento nemmeno più la fame. Solo la disperazione. Chiudo gli occhi.
Presto sarebbe finita.

È notte. Sono attorno al letto. Non riesco a contare quanti sono o a distinguerli tra loro. Sghignazzano e attendono. Riesco appena a tenere gli occhi socchiusi, il mio corpo trema sotto le lenzuola e la coperta di lana. Chiudo gli occhi e finalmente mi addormento.

Mi risveglio e vedo un ampio soffitto a cassettoni. Sento un vociare confuso tutt’attorno. Con la coda dell’occhio, scorgo un uomo con un grembiule nero. C’è qualcosa di appuntito e freddo che preme contro la mia tempia sinistra. Percepisco un pungente dolore al centro della fronte e all’altra tempia. La mia testa è bloccata da cinghie, come il busto, i polsi e le caviglie.
Sopra di me, quasi nascosti tra i listelli di legno, ritrovo gli occhi rossi. Ricordo quella domanda e il mio cuore si riempie di gioia.
Come mi chiamo? Lo so. So come mi chiamo! Il mio nome è-

Toc.

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