Le prime luci dell’alba rischiararono ogni abitazione di Lafayette Street e sembrarono riflettersi con intensità sulla grande casa vittoriana dalle mura color crema, velandola di arancio. Il cielo era poco nuvoloso e un leggero vento soffiava per la strada, facendo ondeggiare le tende di pizzo della finestra aperta.
L’aria dell’estate impregnava ancora il piccolo prato che circondava la casa e l’erba tremolava simile a un mare tempestato di rugiada.
Sarah rimase a fissare il cielo che si illuminava d’oro, stretta nella sua vestaglia bianca decorata con rose rosse ricamate. Non riusciva a credere di trovarsi di nuovo in quella città, dopo quanto era accaduto, più di trecento anni prima.
Salem.
Aveva girovagato per il mondo cercando di dimenticare e infine era ritornata nel New England, come una falena attirata da una fiamma letale.
Chiuse gli occhi color verde smeraldo. Le parve di risentire ancora le urla, l’odore nauseante di carne bruciata, le incitazioni dei puritani. E soprattutto quegli insulti talmente volgari da farla vergognare di se stessa, malgrado fosse consapevole di non aver mai fatto nulla di cui era accusata.
Al di sopra di tutto questo, il suo Arthur.
Il viso di quel ragazzo era ancora nitido davanti a lei, mentre la fissava con amore e adorazione. Il suo dolce sorriso, i suoi occhi grigi.
Non avrebbe mai potuto scordare quel volto.
La testa le girò e decise di fare una lunga doccia calda per riprendersi, seguita da una sana colazione. Era il modo giusto per iniziare quella giornata che già si annunciava piuttosto dura.
Si spogliò, e quando rimase completamente nuda davanti allo specchio dalla cornice barocca, si girò di profilo per osservare il tatuaggio dietro la sua spalla sinistra.
Una grande S dalle estremità attorcigliate: una lettera gotica.
Entrare per la prima volta in una scuola nuova, mentre tutti la scrutavano nei corridoi mormorando parole che non riusciva a sentire, era una delle esperienze che dopo decenni ancora la innervosiva.
Sarah sospirò e ripensò con malinconia alle verdi brughiere dell’Inghilterra, anche se vi mancava da solo una settimana.
Entrò nella doccia e cercò di rilassarsi sotto l’acqua bollente. Chiuse gli occhi e si chiese come sarebbe stata la sua nuova vita a Salem.
Nonostante i secoli che portava oramai sulle spalle, aveva un’immensa voglia di fare cose terribilmente normali come mangiare una pizza, andare al cinema e uscire con le amiche a fare shopping il sabato pomeriggio, perdendosi dentro la folla dei grandi magazzini.
Fino a quel momento però, non era mai riuscita a vivere come una normale diciassettenne, in nessuna delle proprie vite precedenti. Nelle sue varie incarnazioni, ogni volta che aveva avuto degli amici, era sempre successo qualcosa che alla fine li aveva fatti scappare.
Omicidi, ferite mortali e lotte all’ultimo sangue nel cuore della notte. Qualunque ragazzo sarebbe fuggito dopo aver assistito a cose del genere.
Sarah promise a se stessa che questa volta sarebbe stato diverso. Fisicamente dimostrava ancora diciassette anni, e avrebbe vissuto come una normale ragazza della sua età.
O almeno, ci avrebbe provato.
Indossò un paio di pantaloni verde militare con le tasche laterali e una semplice maglietta bianca a mezze maniche. Erano gli abiti più anonimi che avesse; non voleva attirare troppo l’attenzione, desiderava solo confondersi tra le persone.
Un gatto nero le si strusciò fra i piedi miagolando.
«Circe» disse alla gatta, «non ho tempo di giocare. Stanotte andremo a spasso, te lo prometto.»
Il felino saltò sul letto vittoriano dal baldacchino rosa e si raggomitolò, chiudendo gli occhi verde chiaro con le pupille sottili.
Sarah aprì il cofanetto sopra la scrivania in stile retrò e frugò tra i suoi gioielli. Alcuni li aveva indossati in determinati periodi storici, come quel braccialetto d’argento trovato dentro la Reggia di Versailles, subito dopo la presa della Bastiglia.
Dopo un attimo di esitazione, prese dal cofanetto l’unico gioiello che la rappresentava. Una collana con un grande rubino ovale, che aveva lo stesso colore dei suoi capelli: rossi con striature più chiare e divisi in morbide onde che le ricadevano dietro le spalle.
D’un tratto, sussultò.
Dalla finestra una nuova folata di vento la avvolse, impregnata di un odore che lei purtroppo conosceva molto bene.
L’aveva sentito moltissime altre volte, negli ultimi tre secoli.
Pregò con tutta l’anima che non fosse chi temeva.
Tremò e corse alla finestra ma questa volta, invece di fissare il cielo, esaminò il prato sotto la casa con una strana inquietudine.
E lì, proprio nel suo giardino, lo vide.
Indossava un lungo cappotto, nero naturalmente; sotto si intravedevano una giacca gessata e una cravatta annodata in modo perfetto. Era molto elegante, come al solito del resto. E sensuale, così com’era sempre stato.
L’uomo le sorrise lascivo, poi si voltò. Col passo sinuoso di un felino affamato imboccò Lafayette Street, in direzione del centro della città.
Sarah toccò il ciondolo della collana e si pentì amaramente di essere ritornata a Salem. Aveva commesso un altro errore, nonostante le buone intenzioni.
Non è ancora finita. Il passato continuerà a perseguitarmi, perché è questo il destino a cui sono condannata.
Lui l’aveva seguita e stava preparando qualcosa.
Quello era l’odore della morte.
La scuola era iniziata da pochi giorni e il parcheggio del liceo di Salem brulicava di automobili e di studenti. Altri ne arrivavano da Willson Street, salutando gli amici davanti all’entrata. Si conoscevano tutti, o quasi. Passando davanti a una comitiva di cinque ragazzi, Sarah abbassò lo sguardo sotto il peso della loro curiosità.
I corridoi erano invasi da un vociare confuso, un chiasso continuo che la faceva sentire ancora più estranea all’ambiente. Volti sconosciuti la scrutavano senza discrezione.
Per prima cosa si recò in segreteria e ritirò il foglio con le lezioni della settimana. Era mercoledì e quel giorno alla prima ora aveva letteratura inglese, seguita da storia.
Sbuffò e pensò fosse un pessimo modo di iniziare la giornata; la storia era la materia che più odiava, anche perché quando hai la fortuna di assistere di persona alla Guerra d’Indipendenza, difficilmente ti va di studiarla anche sui libri.
Sarah entrò in classe e tutti gli studenti si voltarono a guardarla.
Sedette al primo banco e fece finta di consultare l’orario delle lezioni per non incrociare altri sguardi. Rimase con le braccia incollate sul libro aperto, imbarazzata e con lo sguardo basso, mentre alcuni già parlottavano dietro di lei.
Stava per giungere il momento che più temeva e odiava, quello in cui sarebbe volentieri sprofondata sotto terra: un professore l’avrebbe presentata alla classe.
In quel momento il professor Pearson entrò dalla porta, con indosso una giacca di tweed e i pantaloni sformati. Doveva avere all’incirca una quarantina d’anni: il classico professore che cerca di apparire spigliato quando in realtà non lo è affatto. Quella classe doveva dargli parecchi problemi, dato che nonostante il suo ingresso continuavano a fare chiasso e a muoversi tra i banchi.
L’insegnante si sedette alla cattedra poggiando la valigetta a terra, e prima di fare l’appello disse «Ragazzi, quest’anno avete una nuova compagna.»
Sarah deglutì nervosa e si tenne pronta.
«Lei è Sarah Sawyer, viene da Londra e si diplomerà nel nostro liceo.» Lui la indicò con la mano.
Sarah fremette e arrossì. «Salve.»
In un angolo tre ragazze bisbigliarono e una di loro, la più carina, disse qualcosa che le fece ridacchiare ancora più forte.
Sarah si voltò a fissarla. Come avrebbe saputo durante l’appello, si chiamava Ivy O’Neil, e sembrava il capo di quel trio di pettegole. Aveva lunghi capelli biondo platino, occhi celesti, un fisico da copertina e vestiti alla moda.
Era appena arrivata e già la reginetta della scuola dai capelli ossigenati aveva deciso di farle la festa. La solita fortuna.
Le altre due ragazze, si chiamavano Belinda Chase e Jodie Prince e sfoggiavano ovviamente lo stesso stile di Ivy: capelli impeccabili e abiti attillati.
Decise di non prestare loro attenzione, lasciandole spettegolare. L’ultima cosa di cui aveva bisogno il primo giorno di scuola era una sfida di popolarità contro le cheerleader.
Mentre il professore iniziava la lezione, si mise a osservare con curiosità il resto della classe. C’erano in particolare due ragazzi che la fissavano più degli altri.
Il primo era di pelle abbronzata, con morbidi capelli neri e ricciuti; aveva un’aria sveglia e allo stesso tempo riservata, e da quando era entrata, non le aveva ancora tolto gli occhi di dosso. A Sarah diede subito i brividi, ed evitò accuratamente di incrociarne lo sguardo.
Il secondo era un ragazzo alto e aitante, con i capelli biondi, il fisico muscoloso e le labbra piene. Doveva essere il capitano della squadra di basket, era scontato. Sarah lo fissò con aria seccata per farlo smettere, ma quello continuò a esaminarla come se la stesse spogliando con gli occhi. Alla fine le sorrise e le fece un cenno di saluto con la mano.
Sarah ricambiò il saluto imbarazzata e si concentrò sulla lezione.
Il professor Pearson stava commentando I Viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift. «Perché Swift rappresenta la guerra tra i due popoli mediante la rottura di un guscio d’uovo?» chiese alla classe e attese con forse troppo ottimismo i commenti. Nessuno rispose, alcuni erano impegnati a chiacchierare, altri invece scarabocchiavano sui fogli, una ragazza addirittura ascoltava di nascosto la musica dal suo iPod. «Allora, ragazzi? Anche un commento generico…»
Sulle prime Sarah decise di rimanere in silenzio: era chiaro che alcuni già la criticavano solo perché era inglese, se fosse diventata la prima della classe sarebbe stata odiata proprio da tutti.
Tuttavia, notando che nessuno aveva la minima intenzione di commentare, e impietosita dalla frustrazione che mostrava il professor Pearson, si grattò il braccio nervosamente e spiegò con timidezza: «Vuol dire che il più delle volte l’uomo inizia una guerra per futili motivi, cercando una scusa, un pretesto insignificante, solo per imporsi sull’altro e sottometterlo. Un re vuole rompere il guscio d’uovo dalla parte superiore, l’altro dalla parte inferiore. La soluzione sarebbe semplice, quanto scontata: rompere l’uovo nel mezzo. Ma così non avrebbero più nessuna scusa per continuare ancora la loro stupida guerra.»
Tutta la classe smise di chiacchierare e si concentrò su di lei.
«Benissimo, signorina Sawyer» rispose il professore soddisfatto. «Ma perché Swift sceglie in particolare il guscio di un uovo?»
Sarah esitò, e le parole le scivolarono spontaneamente fuori dalla bocca: «Perché il signor Swift era ossessionato dalle uova. Le voleva cucinate in tutti i modi possibili. Alla coque, strapazzate, in camicia. Se gli si cucinava qualcos’altro, lanciava il piatto dalla finestra. Era piuttosto indisponente.»
Il professor Pearson e gli altri studenti rimasero in silenzio, poi alcuni si misero a ridere forte; di lei, tuttavia, e non certo con lei.
Splendido, neanche il tempo di arrivare e sono già diventata lo zimbello della classe.
«È molto spiritosa, signorina Sawyer» sorrise infine l’insegnante, «ma non credo che questa sia la risposta esatta.»
Sarah capì che era meglio non dire più nulla. Non poteva di certo raccontare che una sera del 1713, quando si trovava a Dublino, era stata invitata a una cena e l’illustre scrittore Jonathan Swift aveva colpito in testa una cameriera con un piatto perché non gli aveva preparato le uova nel modo richiesto.
La prima ora di lezione passò in fretta e lei, visto lo scoppio d’ilarità che aveva provocato nella classe, decise di non intervenire più con i suoi aneddoti, tanto reali quanto improbabili per chiunque non avesse vissuto almeno tre secoli.
Finalmente giunse l’ora del pranzo e Sarah si vide già seduta da sola in sala mensa, mentre tutti continuavano a fissarla.
Sapeva per esperienza che la curiosità nei suoi confronti sarebbe durata almeno una settimana, il tempo fisiologicamente necessario per lasciarli abituare alla sua presenza. I giorni più duri da superare al liceo, erano proprio i primi.
Uscì dalla classe e si avviò per il corridoio. Sostò agli armadietti e ripose i libri.
Andare ancora al liceo era frustrante ma era l’unica possibilità che aveva per sentirsi una ragazza normale e cercare di dimenticare quello che era accaduto.
La sala mensa era piena di studenti, Sarah seguì la fila con il vassoio in mano e prese del purè di patate, due tramezzini al prosciutto e una bottiglietta d’acqua minerale, continuando a tenere sott’occhio un tavolo attaccato al muro, ancora libero.
Doveva essere il tavolo degli sfigati perché tutti gli studenti lo evitavano come la peste, uno dei più isolati dalla confusione. Era perfetto, preferiva rimanere da sola i primi tempi.
Si sedette, ma non riuscì lo stesso a mangiare. Con la coda dell’occhio, intravide il ragazzo biondo della sua classe che veniva verso di lei.
Sarah tolse la plastica dai tramezzini e borbottò piano «Eccolo che viene a provarci…»
«Ciao!» Lui si sedette al tavolo, sulla sedia di fronte. Era spavaldo e sorridente, molto sicuro di sé. «Così vieni da Londra. Io sono Luke, siamo compagni di classe. Il banco dietro al tuo, nell’ora di letteratura inglese.»
«Sì, ti ho visto» rispose Sarah cercando di sembrare gentile, nonostante quell’aria da divo del cinema la infastidisse. Queste parole furono fonte di orgoglio per il ragazzo, credendo che avesse già fatto colpo e lei lo notò all’istante.
«Mi chiamo Luke Sullivan.» Si sporse, poggiando i gomiti.
«Ah, come uno degli amanti di Greta Garbo.» Sarah sorrise, aspettandosi una risposta spiritosa.
«Di chi?» chiese il ragazzo, preso alla sprovvista.
Lei sospirò delusa e riprese ad addentare il suo tramezzino. «Non preoccuparti, stavo scherzando.»
Era un bel ragazzo ma le sembrava piuttosto volubile e superficiale all’apparenza: sicuramente quando passava per i corridoi faceva sospirare quelle del primo anno e nel tempo libero tormentava i secchioni della classe.
«Dove vivi?» le domandò scoprendo i denti bianchissimi.
«I miei genitori hanno comprato la vecchia casa degli Stevens, alla fine di Lafayette Street. Loro sono rimasti a Londra, per lavoro.» Sarah ritenne opportuno cominciare a raccontare balle sul suo passato, per evitare che il giorno dopo qualcuno indagasse sul suo conto.
«Vivi in quella casa stregata?» Luke si finse parecchio impressionato, sforzandosi così di apparire simpatico.
Lei rise e bevve un sorso d’acqua. «Lo so che sembra la residenza estiva del dottor Jekyll vista da fuori, ma ti assicuro che non è niente male, solo di notte gira qualche fantasma qua e là…»
Luke ridacchiò, e si sporse ancora più in avanti. Aveva delle belle labbra e le sorrise con l’aria più innocente del mondo. «Perché stasera non usciamo insieme? Potremmo andare al cinema.»
«E poi a casa tua» completò Sarah, annuendo con malizia. Osservando l’aria chiaramente elettrizzata del ragazzo, comprese di aver fatto centro.
Luke rimase di stucco, infine commentò soddisfatto «Be’, mi avevano detto che le ragazze europee sono piuttosto intraprendenti… Certo, se vuoi possiamo andare direttamente da me e lasciare perdere il film.»
Sarah scosse il capo e trattenne un sorriso triste. Poi si alzò, e lasciò il vassoio sul tavolo con i resti del pranzo. «Senti Luke, ti faccio risparmiare tempo e denaro. Non mi interessa uscire con i ragazzi. E riguardo al tuo programmino serale, ti assicuro che non verrò a letto con te per farti aggiungere un’altra crocetta sul tuo calendario, neppure se mi paghi dieci cene e mi compri un diamante da cento carati.»
Lui storse la bocca e la fissò sbigottito. Il suo sorriso e il suo ottimismo si spensero all’istante. «Cosa? Che vorresti dire? Io non intendevo mica…» Non si aspettava una risposta del genere, anche un semplice no sarebbe bastato. Evidentemente quella nuova ragazza non era timida e impacciata come sembrava a prima vista.
«E se vuoi un consiglio, smetti di pomparti quei muscoli, sembri Buzz Lightyear» concluse lei. «Ci vediamo a lezione, ciao.»
Si avviò verso l’uscita della mensa e lasciò Luke seduto al suo tavolo, mentre stringeva i pugni dall’irritazione.
Ivy, che aveva osservato la scena, la fissò con uno strano sorriso e sembrò annuire tra sé malignamente, rosicchiando la sua barretta di cereali a zero calorie, seduta tra un gruppo di ragazze.
Sarah attraversò il corridoio vuoto, più amareggiata che mai. In quel modo non avrebbe mai avuto degli amici.
Aveva parlato a raffica come un’esaltata e sicuramente, dopo le parole che aveva detto a Luke, da quel giorno in poi tutti a scuola l’avrebbero considerata una lesbica isterica.
Ma era sempre stato più forte di lei. Ogni volta che un ragazzo le si avvicinava, sentiva ancora quella fitta allo stomaco e ripensava subito ad Arthur, e a quello che gli era successo.
Non permetterò che capiti ancora. Non lascerò più che qualche innocente paghi per me, e per quello che sono.
Se Luke avesse saputo cos’era accaduto all’ultimo ragazzo con cui era stata, secoli prima, difficilmente le avrebbe fatto una proposta simile.
Lei non voleva nessuna storia che implicasse un legame sentimentale, voleva solo avere accanto qualcuno che la accettasse, senza fare domande.
In un impeto di rabbia, Sarah colpì uno degli armadietti con un forte pugno, stringendo i denti. L’armadietto ondeggiò e il rumore si propagò nel corridoio deserto, come il rullo di un tamburo.
Gli occhi le si inumidirono di lacrime, e non poté fare a meno di pensare che nonostante la maledizione che si portava addosso da più di trecento anni, era quella la condanna più dolorosa.
Non sarebbe più stata capace di amare.
L’aria dell’estate impregnava ancora il piccolo prato che circondava la casa e l’erba tremolava simile a un mare tempestato di rugiada.
Sarah rimase a fissare il cielo che si illuminava d’oro, stretta nella sua vestaglia bianca decorata con rose rosse ricamate. Non riusciva a credere di trovarsi di nuovo in quella città, dopo quanto era accaduto, più di trecento anni prima.
Salem.
Aveva girovagato per il mondo cercando di dimenticare e infine era ritornata nel New England, come una falena attirata da una fiamma letale.
Chiuse gli occhi color verde smeraldo. Le parve di risentire ancora le urla, l’odore nauseante di carne bruciata, le incitazioni dei puritani. E soprattutto quegli insulti talmente volgari da farla vergognare di se stessa, malgrado fosse consapevole di non aver mai fatto nulla di cui era accusata.
Al di sopra di tutto questo, il suo Arthur.
Il viso di quel ragazzo era ancora nitido davanti a lei, mentre la fissava con amore e adorazione. Il suo dolce sorriso, i suoi occhi grigi.
Non avrebbe mai potuto scordare quel volto.
La testa le girò e decise di fare una lunga doccia calda per riprendersi, seguita da una sana colazione. Era il modo giusto per iniziare quella giornata che già si annunciava piuttosto dura.
Si spogliò, e quando rimase completamente nuda davanti allo specchio dalla cornice barocca, si girò di profilo per osservare il tatuaggio dietro la sua spalla sinistra.
Una grande S dalle estremità attorcigliate: una lettera gotica.
Entrare per la prima volta in una scuola nuova, mentre tutti la scrutavano nei corridoi mormorando parole che non riusciva a sentire, era una delle esperienze che dopo decenni ancora la innervosiva.
Sarah sospirò e ripensò con malinconia alle verdi brughiere dell’Inghilterra, anche se vi mancava da solo una settimana.
Entrò nella doccia e cercò di rilassarsi sotto l’acqua bollente. Chiuse gli occhi e si chiese come sarebbe stata la sua nuova vita a Salem.
Nonostante i secoli che portava oramai sulle spalle, aveva un’immensa voglia di fare cose terribilmente normali come mangiare una pizza, andare al cinema e uscire con le amiche a fare shopping il sabato pomeriggio, perdendosi dentro la folla dei grandi magazzini.
Fino a quel momento però, non era mai riuscita a vivere come una normale diciassettenne, in nessuna delle proprie vite precedenti. Nelle sue varie incarnazioni, ogni volta che aveva avuto degli amici, era sempre successo qualcosa che alla fine li aveva fatti scappare.
Omicidi, ferite mortali e lotte all’ultimo sangue nel cuore della notte. Qualunque ragazzo sarebbe fuggito dopo aver assistito a cose del genere.
Sarah promise a se stessa che questa volta sarebbe stato diverso. Fisicamente dimostrava ancora diciassette anni, e avrebbe vissuto come una normale ragazza della sua età.
O almeno, ci avrebbe provato.
Indossò un paio di pantaloni verde militare con le tasche laterali e una semplice maglietta bianca a mezze maniche. Erano gli abiti più anonimi che avesse; non voleva attirare troppo l’attenzione, desiderava solo confondersi tra le persone.
Un gatto nero le si strusciò fra i piedi miagolando.
«Circe» disse alla gatta, «non ho tempo di giocare. Stanotte andremo a spasso, te lo prometto.»
Il felino saltò sul letto vittoriano dal baldacchino rosa e si raggomitolò, chiudendo gli occhi verde chiaro con le pupille sottili.
Sarah aprì il cofanetto sopra la scrivania in stile retrò e frugò tra i suoi gioielli. Alcuni li aveva indossati in determinati periodi storici, come quel braccialetto d’argento trovato dentro la Reggia di Versailles, subito dopo la presa della Bastiglia.
Dopo un attimo di esitazione, prese dal cofanetto l’unico gioiello che la rappresentava. Una collana con un grande rubino ovale, che aveva lo stesso colore dei suoi capelli: rossi con striature più chiare e divisi in morbide onde che le ricadevano dietro le spalle.
D’un tratto, sussultò.
Dalla finestra una nuova folata di vento la avvolse, impregnata di un odore che lei purtroppo conosceva molto bene.
L’aveva sentito moltissime altre volte, negli ultimi tre secoli.
Pregò con tutta l’anima che non fosse chi temeva.
Tremò e corse alla finestra ma questa volta, invece di fissare il cielo, esaminò il prato sotto la casa con una strana inquietudine.
E lì, proprio nel suo giardino, lo vide.
Indossava un lungo cappotto, nero naturalmente; sotto si intravedevano una giacca gessata e una cravatta annodata in modo perfetto. Era molto elegante, come al solito del resto. E sensuale, così com’era sempre stato.
L’uomo le sorrise lascivo, poi si voltò. Col passo sinuoso di un felino affamato imboccò Lafayette Street, in direzione del centro della città.
Sarah toccò il ciondolo della collana e si pentì amaramente di essere ritornata a Salem. Aveva commesso un altro errore, nonostante le buone intenzioni.
Non è ancora finita. Il passato continuerà a perseguitarmi, perché è questo il destino a cui sono condannata.
Lui l’aveva seguita e stava preparando qualcosa.
Quello era l’odore della morte.
La scuola era iniziata da pochi giorni e il parcheggio del liceo di Salem brulicava di automobili e di studenti. Altri ne arrivavano da Willson Street, salutando gli amici davanti all’entrata. Si conoscevano tutti, o quasi. Passando davanti a una comitiva di cinque ragazzi, Sarah abbassò lo sguardo sotto il peso della loro curiosità.
I corridoi erano invasi da un vociare confuso, un chiasso continuo che la faceva sentire ancora più estranea all’ambiente. Volti sconosciuti la scrutavano senza discrezione.
Per prima cosa si recò in segreteria e ritirò il foglio con le lezioni della settimana. Era mercoledì e quel giorno alla prima ora aveva letteratura inglese, seguita da storia.
Sbuffò e pensò fosse un pessimo modo di iniziare la giornata; la storia era la materia che più odiava, anche perché quando hai la fortuna di assistere di persona alla Guerra d’Indipendenza, difficilmente ti va di studiarla anche sui libri.
Sarah entrò in classe e tutti gli studenti si voltarono a guardarla.
Sedette al primo banco e fece finta di consultare l’orario delle lezioni per non incrociare altri sguardi. Rimase con le braccia incollate sul libro aperto, imbarazzata e con lo sguardo basso, mentre alcuni già parlottavano dietro di lei.
Stava per giungere il momento che più temeva e odiava, quello in cui sarebbe volentieri sprofondata sotto terra: un professore l’avrebbe presentata alla classe.
In quel momento il professor Pearson entrò dalla porta, con indosso una giacca di tweed e i pantaloni sformati. Doveva avere all’incirca una quarantina d’anni: il classico professore che cerca di apparire spigliato quando in realtà non lo è affatto. Quella classe doveva dargli parecchi problemi, dato che nonostante il suo ingresso continuavano a fare chiasso e a muoversi tra i banchi.
L’insegnante si sedette alla cattedra poggiando la valigetta a terra, e prima di fare l’appello disse «Ragazzi, quest’anno avete una nuova compagna.»
Sarah deglutì nervosa e si tenne pronta.
«Lei è Sarah Sawyer, viene da Londra e si diplomerà nel nostro liceo.» Lui la indicò con la mano.
Sarah fremette e arrossì. «Salve.»
In un angolo tre ragazze bisbigliarono e una di loro, la più carina, disse qualcosa che le fece ridacchiare ancora più forte.
Sarah si voltò a fissarla. Come avrebbe saputo durante l’appello, si chiamava Ivy O’Neil, e sembrava il capo di quel trio di pettegole. Aveva lunghi capelli biondo platino, occhi celesti, un fisico da copertina e vestiti alla moda.
Era appena arrivata e già la reginetta della scuola dai capelli ossigenati aveva deciso di farle la festa. La solita fortuna.
Le altre due ragazze, si chiamavano Belinda Chase e Jodie Prince e sfoggiavano ovviamente lo stesso stile di Ivy: capelli impeccabili e abiti attillati.
Decise di non prestare loro attenzione, lasciandole spettegolare. L’ultima cosa di cui aveva bisogno il primo giorno di scuola era una sfida di popolarità contro le cheerleader.
Mentre il professore iniziava la lezione, si mise a osservare con curiosità il resto della classe. C’erano in particolare due ragazzi che la fissavano più degli altri.
Il primo era di pelle abbronzata, con morbidi capelli neri e ricciuti; aveva un’aria sveglia e allo stesso tempo riservata, e da quando era entrata, non le aveva ancora tolto gli occhi di dosso. A Sarah diede subito i brividi, ed evitò accuratamente di incrociarne lo sguardo.
Il secondo era un ragazzo alto e aitante, con i capelli biondi, il fisico muscoloso e le labbra piene. Doveva essere il capitano della squadra di basket, era scontato. Sarah lo fissò con aria seccata per farlo smettere, ma quello continuò a esaminarla come se la stesse spogliando con gli occhi. Alla fine le sorrise e le fece un cenno di saluto con la mano.
Sarah ricambiò il saluto imbarazzata e si concentrò sulla lezione.
Il professor Pearson stava commentando I Viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift. «Perché Swift rappresenta la guerra tra i due popoli mediante la rottura di un guscio d’uovo?» chiese alla classe e attese con forse troppo ottimismo i commenti. Nessuno rispose, alcuni erano impegnati a chiacchierare, altri invece scarabocchiavano sui fogli, una ragazza addirittura ascoltava di nascosto la musica dal suo iPod. «Allora, ragazzi? Anche un commento generico…»
Sulle prime Sarah decise di rimanere in silenzio: era chiaro che alcuni già la criticavano solo perché era inglese, se fosse diventata la prima della classe sarebbe stata odiata proprio da tutti.
Tuttavia, notando che nessuno aveva la minima intenzione di commentare, e impietosita dalla frustrazione che mostrava il professor Pearson, si grattò il braccio nervosamente e spiegò con timidezza: «Vuol dire che il più delle volte l’uomo inizia una guerra per futili motivi, cercando una scusa, un pretesto insignificante, solo per imporsi sull’altro e sottometterlo. Un re vuole rompere il guscio d’uovo dalla parte superiore, l’altro dalla parte inferiore. La soluzione sarebbe semplice, quanto scontata: rompere l’uovo nel mezzo. Ma così non avrebbero più nessuna scusa per continuare ancora la loro stupida guerra.»
Tutta la classe smise di chiacchierare e si concentrò su di lei.
«Benissimo, signorina Sawyer» rispose il professore soddisfatto. «Ma perché Swift sceglie in particolare il guscio di un uovo?»
Sarah esitò, e le parole le scivolarono spontaneamente fuori dalla bocca: «Perché il signor Swift era ossessionato dalle uova. Le voleva cucinate in tutti i modi possibili. Alla coque, strapazzate, in camicia. Se gli si cucinava qualcos’altro, lanciava il piatto dalla finestra. Era piuttosto indisponente.»
Il professor Pearson e gli altri studenti rimasero in silenzio, poi alcuni si misero a ridere forte; di lei, tuttavia, e non certo con lei.
Splendido, neanche il tempo di arrivare e sono già diventata lo zimbello della classe.
«È molto spiritosa, signorina Sawyer» sorrise infine l’insegnante, «ma non credo che questa sia la risposta esatta.»
Sarah capì che era meglio non dire più nulla. Non poteva di certo raccontare che una sera del 1713, quando si trovava a Dublino, era stata invitata a una cena e l’illustre scrittore Jonathan Swift aveva colpito in testa una cameriera con un piatto perché non gli aveva preparato le uova nel modo richiesto.
La prima ora di lezione passò in fretta e lei, visto lo scoppio d’ilarità che aveva provocato nella classe, decise di non intervenire più con i suoi aneddoti, tanto reali quanto improbabili per chiunque non avesse vissuto almeno tre secoli.
Finalmente giunse l’ora del pranzo e Sarah si vide già seduta da sola in sala mensa, mentre tutti continuavano a fissarla.
Sapeva per esperienza che la curiosità nei suoi confronti sarebbe durata almeno una settimana, il tempo fisiologicamente necessario per lasciarli abituare alla sua presenza. I giorni più duri da superare al liceo, erano proprio i primi.
Uscì dalla classe e si avviò per il corridoio. Sostò agli armadietti e ripose i libri.
Andare ancora al liceo era frustrante ma era l’unica possibilità che aveva per sentirsi una ragazza normale e cercare di dimenticare quello che era accaduto.
La sala mensa era piena di studenti, Sarah seguì la fila con il vassoio in mano e prese del purè di patate, due tramezzini al prosciutto e una bottiglietta d’acqua minerale, continuando a tenere sott’occhio un tavolo attaccato al muro, ancora libero.
Doveva essere il tavolo degli sfigati perché tutti gli studenti lo evitavano come la peste, uno dei più isolati dalla confusione. Era perfetto, preferiva rimanere da sola i primi tempi.
Si sedette, ma non riuscì lo stesso a mangiare. Con la coda dell’occhio, intravide il ragazzo biondo della sua classe che veniva verso di lei.
Sarah tolse la plastica dai tramezzini e borbottò piano «Eccolo che viene a provarci…»
«Ciao!» Lui si sedette al tavolo, sulla sedia di fronte. Era spavaldo e sorridente, molto sicuro di sé. «Così vieni da Londra. Io sono Luke, siamo compagni di classe. Il banco dietro al tuo, nell’ora di letteratura inglese.»
«Sì, ti ho visto» rispose Sarah cercando di sembrare gentile, nonostante quell’aria da divo del cinema la infastidisse. Queste parole furono fonte di orgoglio per il ragazzo, credendo che avesse già fatto colpo e lei lo notò all’istante.
«Mi chiamo Luke Sullivan.» Si sporse, poggiando i gomiti.
«Ah, come uno degli amanti di Greta Garbo.» Sarah sorrise, aspettandosi una risposta spiritosa.
«Di chi?» chiese il ragazzo, preso alla sprovvista.
Lei sospirò delusa e riprese ad addentare il suo tramezzino. «Non preoccuparti, stavo scherzando.»
Era un bel ragazzo ma le sembrava piuttosto volubile e superficiale all’apparenza: sicuramente quando passava per i corridoi faceva sospirare quelle del primo anno e nel tempo libero tormentava i secchioni della classe.
«Dove vivi?» le domandò scoprendo i denti bianchissimi.
«I miei genitori hanno comprato la vecchia casa degli Stevens, alla fine di Lafayette Street. Loro sono rimasti a Londra, per lavoro.» Sarah ritenne opportuno cominciare a raccontare balle sul suo passato, per evitare che il giorno dopo qualcuno indagasse sul suo conto.
«Vivi in quella casa stregata?» Luke si finse parecchio impressionato, sforzandosi così di apparire simpatico.
Lei rise e bevve un sorso d’acqua. «Lo so che sembra la residenza estiva del dottor Jekyll vista da fuori, ma ti assicuro che non è niente male, solo di notte gira qualche fantasma qua e là…»
Luke ridacchiò, e si sporse ancora più in avanti. Aveva delle belle labbra e le sorrise con l’aria più innocente del mondo. «Perché stasera non usciamo insieme? Potremmo andare al cinema.»
«E poi a casa tua» completò Sarah, annuendo con malizia. Osservando l’aria chiaramente elettrizzata del ragazzo, comprese di aver fatto centro.
Luke rimase di stucco, infine commentò soddisfatto «Be’, mi avevano detto che le ragazze europee sono piuttosto intraprendenti… Certo, se vuoi possiamo andare direttamente da me e lasciare perdere il film.»
Sarah scosse il capo e trattenne un sorriso triste. Poi si alzò, e lasciò il vassoio sul tavolo con i resti del pranzo. «Senti Luke, ti faccio risparmiare tempo e denaro. Non mi interessa uscire con i ragazzi. E riguardo al tuo programmino serale, ti assicuro che non verrò a letto con te per farti aggiungere un’altra crocetta sul tuo calendario, neppure se mi paghi dieci cene e mi compri un diamante da cento carati.»
Lui storse la bocca e la fissò sbigottito. Il suo sorriso e il suo ottimismo si spensero all’istante. «Cosa? Che vorresti dire? Io non intendevo mica…» Non si aspettava una risposta del genere, anche un semplice no sarebbe bastato. Evidentemente quella nuova ragazza non era timida e impacciata come sembrava a prima vista.
«E se vuoi un consiglio, smetti di pomparti quei muscoli, sembri Buzz Lightyear» concluse lei. «Ci vediamo a lezione, ciao.»
Si avviò verso l’uscita della mensa e lasciò Luke seduto al suo tavolo, mentre stringeva i pugni dall’irritazione.
Ivy, che aveva osservato la scena, la fissò con uno strano sorriso e sembrò annuire tra sé malignamente, rosicchiando la sua barretta di cereali a zero calorie, seduta tra un gruppo di ragazze.
Sarah attraversò il corridoio vuoto, più amareggiata che mai. In quel modo non avrebbe mai avuto degli amici.
Aveva parlato a raffica come un’esaltata e sicuramente, dopo le parole che aveva detto a Luke, da quel giorno in poi tutti a scuola l’avrebbero considerata una lesbica isterica.
Ma era sempre stato più forte di lei. Ogni volta che un ragazzo le si avvicinava, sentiva ancora quella fitta allo stomaco e ripensava subito ad Arthur, e a quello che gli era successo.
Non permetterò che capiti ancora. Non lascerò più che qualche innocente paghi per me, e per quello che sono.
Se Luke avesse saputo cos’era accaduto all’ultimo ragazzo con cui era stata, secoli prima, difficilmente le avrebbe fatto una proposta simile.
Lei non voleva nessuna storia che implicasse un legame sentimentale, voleva solo avere accanto qualcuno che la accettasse, senza fare domande.
In un impeto di rabbia, Sarah colpì uno degli armadietti con un forte pugno, stringendo i denti. L’armadietto ondeggiò e il rumore si propagò nel corridoio deserto, come il rullo di un tamburo.
Gli occhi le si inumidirono di lacrime, e non poté fare a meno di pensare che nonostante la maledizione che si portava addosso da più di trecento anni, era quella la condanna più dolorosa.
Non sarebbe più stata capace di amare.
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