mercoledì 29 febbraio 2012

"Crystal's tears, Il segreto di Pamela" di Amarganta Blue



Punteggio 188/250  (7.5 voto)

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Tasha aprì la porta delicatamente e avanzò con sicurezza felpata nel buio ricreato dalla tapparella abbassata. Andò dritta, poi si spostò lateralmente sulla sinistra di tre passi per non urtare il letto. Avanzò ancora, finché la mano protesa non sfiorò la superficie liscia. Le dita scivolarono rapide come le zampe di un ragno. Si fermarono solo al tocco della statuina della Geisha.
Tasha storse le labbra. Portò ancora avanti la mano, finché non incontrò quello che cercava. Si volse verso il riquadro di luce, varco aperto sul corridoio irrorato dai raggi dell’estate. Nessuno in vista. La scatolina di metallo, che racchiudeva “il segreto”, era nelle sue mani. La stringeva al petto, come un amore ritrovato dopo anni di separazione imposta. Eppure non ne conosceva il contenuto. Aveva solo una manciata di indizi: il sogno, il cielo di luce, il bambino che implorava il suo aiuto.
“E come posso aiutarti?” gli aveva chiesto.
“Devi prendere la scatola che trovi sul mobile di Pamela”.
“Pamela?”.
“Sì, quella che tu chiami mamma”, sibilò lui, spruzzando un astio incontrollato “In realtà…”
Un accordo di chitarra in distorsione l’aveva letteralmente buttata giù dal letto, interrompendo la rivelazione di cui aspettava il seguito con trepidazione. Ma la notte successiva non ricevette alcuna visita, e così di seguito. Da un anno, ormai, dell’appello era rimasta solo un’eco remota, che improvvisamente, in quel pomeriggio di fuoco estivo, era riesplosa, traducendosi in un’impellente urgenza.
Se sua madre l’avesse colta sul fatto, sarebbero stati dolori e poi non sapeva cos’altro. Ma Pamela non sarebbe tornata prima di cena e per lei la via era libera. O almeno così credeva.
Tasha era già in procinto di andarsene con il bottino, quando qualcosa la sfiorò. Qualcosa che andò a urtare l’uscio, che si chiuse di colpo, consentendo al buio di inghiottire anche lei. La ragazzina andò sicura verso la soglia preclusa. Cercò di girare la maniglia, ma la mano si ritrasse al tocco di una sostanza viscida sul metallo freddo. Arretrò, mentre due mani le artigliarono le spalle.
“Ma cosa…”.
Tasha strinse più forte la scatola contro il petto, dove il cuore aveva bissato ogni record. Qualcosa le diceva che non avrebbe dovuto lasciarla. Mai.
“Rimettila a posto e vattene subito da qua”.
La voce, più ruvida della cartavetrata, le fece accapponare la pelle madida di sudore.
“Ma… ma… tu chi sei?” balbettò la ragazza.
“Non importa chi o cosa sono. Molla l’osso, Tasha, e torna ad ascoltare il tuo pattume sonoro”.
Fu come un pugno allo stomaco. Per lei passava il fatto che voce- di- cartavetrata sapesse il suo nome. Ma Lady Gaga non si toccava. E la scatola men che meno.
La ragazzina afferrò il braccio che la teneva imprigionata e con un Harai Goshi alquanto goffo, atterrò l’avversario.
“Non avresti dovuto sfidare una cintura verde di Judo”.
Si precipitò verso l’interruttore della luce, di cui gli occhi ormai abituati all’oscurità ricordavano la posizione, ma qualcosa di simile a un tentacolo le avvolse la gamba, facendole perdere l’equilibrio. Nella caduta riuscì a toccare il pulsante. La luce si accese, proprio mentre la ragazza cadeva sul ginocchio e visualizzava voce-di-cartavetrata.
La creatura mise le mani davanti a quello che poteva chiamarsi solo per eufemismo “viso”. Un triangolo che aveva per naso una proboscide, culminante in una cuspide. Le labbra erano spaghetti di carne viola, come gli occhi, ciò che conferivano a quell’essere qualcosa di umano, se così di poteva dire all’ombra di un altro eufemismo.
La ragazzina si addossò alla porta, il coraggio svanito in un attimo.
“Mioddio… ma cosa…”.
Confusione, paura, stupore. Lo stesso mix che vedeva in quell’essere immondo.
In quel momento la cartavetrata era diventata velluto lagnoso.
“Ti prego, non dirmi che sono un orrendo, malvagio, blasfemico, mefistofelico mostro!”.
La ragazzina alzò il sopracciglio. Il mix di stati d’animo si era compattato nell’unica soluzione: la perplessità. Tasha cercò di razionalizzare, cercando di sincronizzarsi sui tempi della madre assente.
“Non ti preoccupare, abbiamo ancora tempo” fece l’essere, tentando di rassicurarla.
“Tempo per cosa?”.
“Prima che torni il demone. Cioè…” notando il cambio repentino di espressione, si corresse “Ehm, volevo dire… io… cioè… il demone…”.
“Oh insomma, piantala, o mi farai venire un attacco epilettico!”.
Il mostro si morse gli spaghetti viola.
“Scusami” sussurrò.
Tasha scosse il caschetto castano. Ormai si era abituata a quella visione, certa che fosse il personaggio di uno dei suoi incubi ricorrenti. Scattò in piedi, piroettò su se stessa, pestò i piedi. Poi si diede un pizzicotto e urlò: “Allora, quand’è che suona la sveglia?”.
Non accadde nulla. Solo il rumore di una porta che si apriva, quello di tacchi che risuonavano nella cucina e, infine, la voce inattesa.
“Tasha, sei in camera tua?”.
L’essere balzò in piedi, avanzò verso l’umana, che cercò di aprire la porta, ancora una volta, inutilmente. Si sentirono i passi rapidi sui gradini. Era sempre più vicina. Un’interruzione, un richiamo che echeggiò nella stanza tappezzata di poster di Lady Gaga, Robert Pattinson e Justin Bieber.
“Tasha? Sei in bagno?”.
La ragazza si volse verso la porta, poi verso la creatura che stiracchiò un sorriso.
“Comunque io sono …”
“Tasha?” La voce era sempre più vicina, i due intrusi sempre più fibrillanti.
“Io mi chiamo…” continuò l’essere.
“E ti pare il momento per i convenevoli?” lo tranciò lei a bassa voce “E adesso che faccio?”.
“Tasha?” vide la maniglia sbloccarsi, l’uscio aprirsi gradualmente, la donna dalla criniera leonina affacciarsi sulla soglia.
“Ma cosa…”.
La stanza era vuota. Tutto era in ordine, a parte la luce che era certa di avere spento prima di uscire. La donna avanzò ancheggiando. Passò le mani sulla Geisha che assunse le sembianze di una tirolese con tanto di trecce color carota.
“Questa mi piace di più” gongolò, prendendo la scatolina tra i palmi. La aprì, annusò il coperchio, che abbassò con un colpo secco.
“Mmhh, profumo muschiato… E…” si guardò intorno, le orecchie tese, le narici in movimento “di…” scoprì i canini dell’arcata inferiore, più lunghi della norma “… demone. Tasha, Ipos, so che siete qua!”.
Allungò il braccio come l’ispettore Gadget e aprì l’anta dell’armadio. Scostò i vestiti appesi alle grucce, da cui emersero i due intrusi.
Tasha era impietrita dal terrore. Non poteva essere sua madre, quella creatura ibridata. Fu allora che i canini si ritrassero, tornando alle dimensioni normali. Il volto, prima corrugato da un’espressione malvagia, si distese. Pamela tornò a essere l’umana dalla bellezza sfolgorante da cui la figlia si sentiva oscurata. La donna parlò, melliflua.
“Tasha ma cosa ci fai tra i miei vestiti? E per di più in compagnia di un demone?” inclinò la testa “Tesoro, vieni fuori!”.
La ragazzina non aveva l’animo di uscire dall’armadio. Era paralizzata da uno stato d’animo che non sapeva spiegare. Una mano le sfiorò i capelli. Non avere paura. Quella voce. Il bambino che le aveva chiesto aiuto e che era sempre rimasto vicino a lei, un soffio d’anima che svelava in quel momento la sua presenza.
“Allora che aspetti? Esci?” fece la madre.
“Io… io”.
Non avere paura. Una carezza per le orecchie e per il cuore, che attivò i piedi scalzi. Uscì, accolta dalla mano della madre che, sorridente, le toccò delicatamente le guance.
“Piccola, non temere”.
Dagli zigomi passò al collo, cui riservò tocchi più decisi. Malgrado la punta delle unghie la graffiassero lievemente, c’era una dolcezza rassicurante in quei gesti. Forse sua madre l’avrebbe condotta in cucina, dove le aspettava una maxi coppa di gelato alla fragola e le solite chiacchierate fashion della settimana. O forse, si sarebbe svegliata e il mostro sarebbe sparito e lei sarebbe corsa verso il sole albeggiante. Ma l’essere immondo era lì, la proboscide arrotolata, lo sguardo di un valvassino in punizione.
Le dita scesero sulle spalle, poi sulle braccia, verso la schiena. Esitarono, poi risalirono e improvvisamente scattarono, manette di ghiaccio, intorno al collo. La morsa che si faceva sempre più ferrea, le preghiere dell’adolescente ridotte a gemiti soffocati.
A quella vista, il mostro si precipitò fuori dal rifugio. Cercò di forzare la morsa, ma una scarica elettrica lo fece sbalzare contro la parete, cui rimase appiccicato.
“Non ti immischiare, razza di errore sovrannaturale!” gridò il mostro, che si rivolse alla ragazza “E ora, piccola, ci trasferiamo laggiù”.
“Mamma, ma…” Tasha cercò di staccarsi le dita di dosso, ma per quanto premesse, non ce la fece, il volto cianotico, il respiro ormai mozzato. Tutto iniziò ad assumere contorni sempre più sfocati, le palpebre si appesantirono, finché i sensi non la abbandonarono.

Aprì gli occhi, dopo un sonno tenebroso, accompagnato dalla sensazione di cadere nel vuoto. Era sdraiata su un pavimento roccioso, davanti a lei uno strapiombo, sotto al suo sguardo, un oceano che rispecchiava le tinte del cielo livido. Un vento furioso le scompigliava i capelli. Tasha si alzò sul busto, cercando di capire dov’era. Prima che potesse porsi qualsiasi domanda, la voce della madre la riportò alla realtà di quell’incubo a nero di seppia.
“Ben svegliata, amore”.
La figlia fissò gli occhi su una scena surreale. Pamela era seduta su un trono, la chioma simile a quella di una Medusa invasata, il corpo avvolto in un tubino simile a carta velina. Teneva in grembo un serpente che accarezzava, languida, mentre Isop le porgeva un calice colmo di un liquido blu. La creatura indicò la ragazza.
“Servo, devi portarlo a lei, non a me”.
Il mostro chinò il capo, timidamente.
“Mi perdoni signora, avevo capito male”.
“Come al solito” borbottò lei, mentre il servo raggiungeva Tasha.
La guardò, una lacrima all’angolo degli occhi.
“Perdonami Tasha, non sono riuscito a salvarti” le sussurrò, lo sguardo che parlava di un sentimento inespresso.
“Eddai, sbrigati a farle bere il veleno!”.
La ragazzina trasalì.
“Veleno?”.
A un cenno della donna -se di donna poteva trattarsi-, Tasha cadde a terra, spinta da una forza sconosciuta, impossibile da contrastare.
“Sì veleno. Devi berlo per completare la tua trasformazione in demone”.
“La mia trasformazione in cosa?”.
“Hai sentito, benissimo. In demone” Pamela addolcì il tono e l’espressione, che si fece più comprensiva “Va bene ti spiegherò un po’ di cose”.
Si alzò e le si avvicinò, portando con sé una sgradevole essenza di morte. Le labbra luccicavano di una sostanza che non poteva essere rossetto. No quello era sangue. Un rivolo sottile, visibile solo a distanza ravvicinata, scendeva sul mento.
Tasha si strinse le gambe, tremando, come quando, bambina, papà le raccontava dell’uomo nero per indurla a non fare più i capricci.
“Sei come una fogliolina che non vuole staccarsi dal suo albero” sussurrò la donna, posandogli le mani sulla testa “Ma io ti farò diventare pungente e forte come un cactus”.
Le raccontò tutto.
Pamela era in realtà Attinia, signora di Eptalon, regione di Demonia, meglio conosciuta dagli umani come Inferno. Era giunta sulla Terra con una missione: recuperare le lacrime di bambino per consentire la nascita di demoni, che a Eptalon erano a rischio di estinzione, per ragioni che nemmeno il Concilio Scientifico Supremo aveva saputo trovare. Solo le lacrime scaturite dalla vera sofferenza dei bambini, e non da capricci ed effimeri spauracchi, avrebbe permesso il ripopolamento. Attinia aveva viaggiato in lungo e in largo per la Terra, dov’era riuscita a recuperare le lacrime di alcuni piccoli, poi trasformati in demoni cortigiani. Un giorno incontrò lui. Loris, un bambino orfano e di una sensibilità incredibile, ereditata da un antenato fatato, forse un elfo. Insomma, strani giochi della genetica, secondo Attinia, che riuscì a raccogliere le sue gocce di tristezza e a condensarle in un cristallo, dalle proprietà eccezionali. Ma mentre stava per trasformarlo in demone, la sua anima era riuscita a scappare, rifugiandosi in un luogo di luce a lei inaccessibile.
“Così Loris ha chiesto a te di recuperare il tesoro, per poi spezzare il sigillo che tiene imprigionati i piccoli trasformati nei miei schiavetti demoniaci” fece una pausa “Un modo per distruggere Eptalon”.
Tasha era senza parole. L’assurdo si era aggiunto al precedente, che suonava come lo sciabordio dell’oceano sottostante. Dunque Isop era uno di quei bambini trasformati. Dunque si spiegavano le misteriose sparizioni avvenute negli ultimi anni e che avevano visti coinvolti proprio alcuni bambini. Soltanto un paio di loro erano stati trovati, ma i medici legali avevano costatato la morte per disidratazione, senza mai riuscire a risalire alle effettive cause o a ipotetici colpevoli.
La ragazzina fece appello al coraggio che aveva nel cuore. Si alzò in piedi, con l’intenzione di affrontare il demone.
“Ma tu…” esitò, poi sparò il quesito a bruciapelo “Sei mia madre?”.
Pamela sospirò, simulando il dolore.
“Ho preso il posto di tua madre…”.
“Vuoi dire che è morta?”.
“No” cambiò discorso, bruscamente “ Però, sai Tasha, mi piaci tanto che ho deciso di trasformarti nella mia erede”.
“E dunque dovrei morire definitivamente affinché tu mi possa trasformare in demone?”.
Attinia la abbracciò, poi si staccò stringendole le spalle, esultante.
“Già”.
“Quindi, ora sono in uno stato intermedio, tra la vita e la morte?”.
“La tua intelligenza mi ha sempre entusiasmata, Tasha”.
“Ma… dov’è mia madre?” ripeté , cocciuta.
“Questo non mi è dato saperlo” ringhiò l’altra.
“E papà?” rilanciò la ragazza.
Il demone abbassò la testa, la voce rotta da finta commozione.
“Oh povero… lui è impazzito. Forse è rinchiuso in qualche clinica, forse è rinsavito … Della sua sorte nulla so…” fece una pausa, ignorando l’espressione sconvolta dell’adolescente, poi indicò il calice “Ma ora, tocca alla tua sorte”.
Non farlo. La voce di Loris echeggiò, facendo trasalire Pamela.
“Ma com’è possibile che Loris sia qua? Questo mondo è inaccessibile se non…” la comprensione della situazione si fece strada nella mente dell’essere “Ora ho capito Loris è… dentro di te! Si è reincarnato in te… Ma… come ha fatto? Tu eri nata da un pezzo quando mi sono occupata di lui”.
La ragazzina era confusa. Teneva tra le mani il bicchiere, incerta sul da farsi. Attinia, la stava incalzando affinché bevesse il siero malefico. Se non l’avesse fatto, l’avrebbe cancellata dalla faccia di tutti i mondi possibili e morendo non sarebbe riuscita a distruggere il cristallo, per redimere Loris e mettere fine alle angherie della perfida creatura. La quale indovinò i suoi pensieri.
“Tesoro mio, non hai molte scelte. O muori per sempre o vivi come demone. E se vivi come demone, non potrai aiutare Loris”.
La ragazzina esitò, poi portò lentamente il calice alla bocca. Attinia la guardava, pregustando il suo trionfo. Era pronta a trasmettere il patrimonio demoniaco alla figlia adottiva, di cui stimava la forza e l’irruenza.
La bevanda stava ormai entrando nella bocca, quando qualcosa colpì la mano che reggeva il bicchiere. La proboscide di Isop. Tasha alzò gli occhi, proprio mentre la scatolina, lanciata da Esop, stava arrivando a lei. Prima di ritornare a Eptalon il mostro, non visto dalla padrona, era riuscito a sottrarla.
Attinia non fece in tempo a rendersi conto di quello che stava accadendo, che la ragazzina aveva già in mano il contenuto. Gettò a terra il cristallo, che s’infranse.
Tutto tremò sotto e intorno a loro. Dall’oceano si sollevò un’onda che travolse i presenti e il regno. Nemmeno Tasha poté sottrarsi al moto ondoso, all’acqua salata e fredda che le entrava nel naso e nella bocca, mentre veniva trascinata in abissi sempre più scuri. Perse di vista Attinia e Isop, di cui colse un grazie urlato a piena voce.
In un attimo il buio lasciò il posto alla luce. Tasha si trovò nella camera di Pamela ansante e grondante acqua salata. Superato l’attimo catatonico, la ragazzina s’infilò sotto la doccia, si asciugò, si rivestì e si precipitò nel corridoio, giù per le scale, rischiando di cadere. Si affacciò sulla soglia della cucina dove la mamma stava sistemando la spesa.
Quindi si fiondò in giardino. Esaminò i fiori, gli alberi, l’erba. Si fece accarezza dal sole bollente, respirando la luce, affondando nell’azzurro del cielo terso. Poi fece correre lo sguardo oltre la recinzione, dove un ragazzo della sua età stava scaricando alcuni scatoloni.
Dovevano essere i nuovi vicini, mamma le aveva detto che sarebbero arrivati entro la fine della settimana. Ed era giovedì. Mentre usciva dalla porta finestre della bifamigliare, il ragazzo la notò. Aveva due occhi viola, un sorriso radioso, che si accese alla vista della bella vicina.
Tasha arrossì. Un dettaglio la attirò verso la t-shirt su cui troneggiava la scritta Isop.
Lui si avvicinò.
“Ciao. Io sono Axel. Tu devi essere Tasha”.
Lei trasalì, ma si riprese subito. Cercò la risposta tra le pieghe della mente, ancora stravolta.
“Sì... Ma come fai a conoscere il mio nome?”.
“Vedi, noi ci siamo già visti” fece una pausa “Ed è come se ti conoscessi da sempre”.
Tasha indicò la maglietta.
“E quella?”.
“Questa? È la mia band. Facciamo alternative rock… cover e qualcosa di nostro” fece una pausa “A proposito, sabato sera suoniamo al Vanilla, il pub di via Anselmi, se ti va di venire con qualche tua amica… bé io sono là con la mia band”.
“Non amo il rock” esitò, poi sorrise “Ma non mancherò. Sono curiosa di venire a sentirvi”.
Una voce dall’interno mise il ragazzo sull’attenti.
“Axel puoi scaricare l’ultimo scatolone?”.
“Sì, papà” si rivolse alla ragazza “Ci vediamo”.
Non fece in tempo a muovere due passi, che Tasha lo richiamò.
“Axel?”.
“Sì?”.
“Bel nome, Isop”.
Lui le strizzò l’occhio, complice.
“Certe cose non si scordano così facilmente”.
E rientrò, lasciando Tasha al gelato alla fragola e alle chiacchiere fashion con la mamma.

1 commento:

  1. Secondo me il racconto manca un pò di nesso logico. Non si riesce bene a comprendere quando la protagonista sogna e si trova nel mondo dei demoni. Poi come fa a passare dalla sua stanza all'inferno ?

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