mercoledì 29 febbraio 2012

"Un favore da ricambiare" di Daniele Imbornone



Punteggio 143/250  (5.7 voto)

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Le mani infilate nella sabbia. Il sole coperto dai rami che formava geometrie irregolari sul selciato, i prati poco distanti colmi di facce felici e il laghetto sulla mia sinistra. Non ricordo un gran ché, ma so per certo che giocare con le formine e i secchielli d’estate, è sempre stato il massimo per me. C’era da sporcarsi parecchio e spesso i granelli mi entravano abbondanti nei vestiti, tuttavia, ciò non mi importava. Volevo divertirmi e passare un pomeriggio in compagnia degli amici, solo questo. In particolare di una: una bambina che incontravo spesso in quel parco. La ho davanti in questo momento; capelli dorati che le cadevano lungo volto segnato dal color ambra del luogo, e le mani impastate come le mie, impegnate a far sorgere la terza torre del suo castello. Non ricordo molto di quella mia vita passata, la memoria all’età di cinque anni non è molto funzionante. Ad ogni modo, per uno scherzo di pessimo gusto, il cervello ha impresso questa immagine nel mio cuore: quella bambina che ad un tratto mi veniva strappata davanti agli occhi prima che la sua opera fosse compiuta; la mano tesa verso la sua per cercare di trattenerla. Non ci riuscii, sfortunatamente.
Mi svegliai di soprassalto quella mattina, ansimante e coperto di sudore. “Un’altra volta quel sogno”, dissi quando realizzai. Era da una settimana che quell’esperienza mi veniva riproposta di notte; e ogni volta, i dettagli aumentavano. Quella visione era per me oscura e non sapevo dirmi il perché vedessi sempre e solo tale scena. Quella bambina della mia infanzia ... non so chi fosse né che fine avesse fatto. Mistero.
Il mio nome è Spencer, sono un ragazzo di 23 anni che studia scienze biologiche all’università di San Diego in California. Sono al quarto anno, e vi assicuro che studiare di giorno e lavorare di notte in una discoteca come barman non è facile. La vita di un ragazzo del ceto medio è piuttosto dura, sopratutto con genitori lontani e le spese dell’università che incombono. Ad ogni modo non mi lamento e sia la scuola che il lavoro mi piacciono. Non ho una ragazza e non mi interessa averla, non saprei come gestire il casino del tutto con una femmina alle calcagna, mi basta il cane del mio compagno di stanza; un Labrador Retriever. Esatto, è la stessa razza del cane della Scottex. Non fatevi però trarre in inganno dalla dolcezza di quell’esemplare; Roger è leggermente più grande e abbaia molto più spesso. Oggi ho quattro ore di lezione, due di genetica e altrettante di laboratorio di anatomia comparata 2. Una fetta di pane imburrato con due sorsi di succo, e sono pronto per mezz’ora di tram. Il tragitto è breve, ma se come me non sai come ingannare il tempo, l’attesa diventa eterna. Ci sono due modi per evitare il collasso: uno, studiare ... due (che è il mio preferito), ascoltare ciò che il lettore mp3 ti propone. Sono un tipo schivo e non molto socievole, ma anche un’associale come me ha il suo giro di amicizie. Il compagno di banco che mi tiene compagnia dal primo anno si chiama Jason, un mastino alto un metro e ottanta per 110 chili di peso. Stano a dirsi, ma è buono come il pane e non farebbe mai del male ad una mosca; tuttavia toccategli i Metallica e vi riempirà di mazzate. Ridendo, scherzando e prendendo appunti, il tempo vola, e senza che me ne rendessi conto, l’ora di uscire e tornare a casa giunse in un baleno. Arrivai a casa prima del previsto. Salii i tre piani del condominio e infilai la chiave nella serratura del mio appartamento. Immediatamente, appena poggiata la chiave, Roger iniziò ad abbaiare come un folle. “Oh, no ... nemmeno sono entrato e già questo stupido cane mi rompe le scatole.” Era il Labrador Retriever prima citato, un impiastro che voi non avete idea. Non è cattivo, l’unico problema è che è iperattivo e vuole sempre giocare. Il suo divertimento maggiore consiste nel mordere la mia povera tibia. Aprii la porta con cautela. “Buono, buono.” Faticosamente mi feci strada fino in cucina. Mi avvicinai al frigo e mi preparai un toast con quello che Hank aveva comprato il giorno prima. Un boccone di prosciutto anche al povero cane a digiuno dalla sera prima. Mi fiondai poi in camera mia chiudendo a chiave la porta per evitare sorprese, e mi misi a ripassare quanto fatto in aula quel giorno. Il primo esame del semestre è tra una settimana, devo mettermi sotto per superarlo almeno al secondo appello. Strano, non riesco mai a superare un esame al primo tentativo. Il mio cervello è come un motore diesel; ingrana pian piano, ma quando prende la giusta confidenza col terreno e la strada, è un fulmine. Due ore passate tra le pagine dei libri e dei quaderni, e sentii la porta di casa aprirsi. Era il mio coinquilino Hank, appena tornato a casa dal lavoro. “’Sera Hank”, gli dissi spalancando la porta. “’Sera bello! Allora, fatto i compiti?” Era il classico ragazzo di campagna; alto sul metro e sessantacinque, carnagione abbronzata (sempre anche in inverno), mediamente robusto, capelli corti come i miei e due occhi nocciola vispi e vivaci. “Appena finito. Non ne potevo più di studiare per questo schifo di esame”, esclamai. “Amico devi fare come me ... studia ma non tralasciare il divertimento, altrimenti i tuoi neuroni scoppieranno”, recitò col suo solito accento del sud. “Lavori in una discoteca da urlo! Divertiti! Porta una bella ragazza a casa e sfoga la tua rabbia repressa!” terminò con enfasi. “Hank lo sai, non sono il tipo”, asserii. “Ho capito, vorrà dire che rimarrai vergine fino alla fine dei tuoi giorni.” Va detto che il nostro caro amico, portava una ragazza diversa a casa un giorno sì e l’altro pure, e io devo sempre sopportare il fracasso e gli annessi con il cuscino pigiato a forza sulle orecchie. Decisi ad ogni modo di andare a letto presto quella sera, avevo bisogno di dormire molto. Domani dovrò lavorare, il che significa che mi potrò riposare solo dopo le cinque del mattino; se mi va bene.
Ancora una volta, accadde. Non so il perché, ma anche quella notte mi ritrovai nel parco. Stranamente la scena del sogno era diversa. Quel giorno il sole era coperto da fitte nubi e un temporale era alle porte. Giocavo con gli amichetti, a nascondino quella volta, e nonostante l’impedimento meteo, avevo intenzione di divertirmi con il poco tempo a disposizione che avevo. Dopo una breve ricerca trovai un nascondiglio perfetto: l’interno di un albero cavo. Con le mani piccole e sporche mi infilai piano al suo interno e mi sedetti su di una sporgenza. Ad un tratto però, mi voltai spaventato; avevo sentito un respiro sull’orecchio sinistro. Raccolsi tutta l’aria che i polmoni mi permettevano e mi preparai ad urlare. Improvvisamente, una mano mi bloccò la bocca e un piccolo dito mi fece cenno di non fiatare. Era quella bambina, la bionda creatura della mia infanzia. Per un caso fortuito avevamo scelto lo stesso rifugio. Sottovoce mi sconsigliò di gridare, altrimenti saremmo stati scoperti entrambi. Annuii, sorpreso e intimorito. I tuoni cominciavano a ruggire, e una lieve pioggia aveva iniziato a cadere placida ma inesorabile. Avevo freddo nonostante fosse piena estate. La bambina si aggrappò forte a me e urlò, evidentemente, la mia compagna di avventure temeva i lampi. Era chiaro ormai che il gioco non era più importante, era giunto il momento di tornare a casa. Mi alzai deciso per uscire. Lei mi guardò perplessa. “Cosa fai?” mi domandò gentile. “Torniamo dalla mamma.” Le porsi la mano per aiutarla. “Dimmi, come ti chiami bambina?” chiesi nel mentre lei afferrava il mio aiuto.
“Mi chiamo A ...” non riuscì a finire la frase, che una nuova voce sopraggiunse con violenza e imprevedibilità. “Ti ho trovata!”
Il sogno finì in quell’esatto istante, e io come al solito mi svegliai sudato e con i brividi. “Ancora ... perché continuo a sognarla?” mi chiesi passandomi una mano sulla nuca rada ansimando. Guardai la sveglia, erano le sei e mezza del mattino. Quel giorno non avevo lezione, decisi così di rilassarmi e di passare un po’ di tempo a non far niente. Ad ogni modo non ci riuscii, la visione di quella notte unita all’importanza dell’esame che era ad un passo, mi costrinse a mettermi a studiare per ingombrare la mente. Il mio programmino serale però, non subì cambiamenti. Come già accennato, dovevo lavorare. La discoteca dove mi guadagno da vivere si chiama: The Tentation, ed è la seconda più grande di San Diego. E` sempre affollatissima e i turni possono durare fino all’alba, e quando torni a casa, l’unica cosa che puoi fare è dimenticare il lavoro e pensare a dormire. Le consumazioni però sono gratis e puoi fare quello che ti pare quando il tuo turno finisce. Una ricompensa in più oltre il solito stipendio che non è affatto male. Esco per le cinque del pomeriggio e mi avvio con calma. Non è lontana dal mio appartamento, ma arrivarci è dura, soprattutto nell’ora di punta, soprattutto il sabato. Proprio per questo esco prima del previsto. A destinazione, ad accogliermi c’è come sempre David, il buttafuori. Un ragazzo di ventisei anni che lavora qui il sabato e la domenica. Come il mio compagno di università, è molto robusto e piazzato, e non appena ti becca a fare qualcosa di sbagliato, non si fa molti scrupoli ad appenderti ad un attaccapanni. “Ciao Spence!” mi salutò lui. “Ciao David, turno duro oggi eh?” scherzai io. “Amico, io faccio sempre e solo i turni duri, altrimenti voi poveracci non riuscireste a cavare un ragno dal buco.” Risatina generale. In fondo David aveva ragione; senza di lui, la sua stazza e la sua vista a 360°, il locale sarebbe nei guai. Alle otto inizio, ad ogni modo la discoteca si riempie sempre prima del previsto. L’ora di punta al The Tentation giunge alle dieci – dieci e mezza. Prima di allora le cose sono gestibili, ma il problema esplode e diventa tragedia alle undici e resta tale fino alle due – tre. La musica e le luci stordiscono tutti, anche uno che ascolta il rumore puro come me. Tuttavia, sfortunatamente non ho mai tempo per gioire con le canzoni che il DJ piazza sulla pista. Le mani, il cervello e la mia attenzione sono sempre rapite da bicchieri e liquori. Non vi faccio la raccolta di cocktail che faccio perché non basterebbero dieci pagine. Quella sera me la cavai bene, e alle due e mezza la fase critica scemò. Alle tre staccai. Guadagnai parecchi extra, e dopo una pausa di venti minuti passata ansimando come Roger sorseggiando un Mojito, mi apprestai a fare ritorno al mio nido. Zaino in spalla e cuffie nelle orecchie salutai tutti e voltai l’angolo della strada, quando ... un urlo assordante rapì la mia attenzione. Mi misi istintivamente a correre allarmato in direzione del fenomeno, e in un vicolo stretto e poco illuminato focalizzai un inconveniente. Due uomini si accalcavano e fremevano contro qualcosa. Digrignai i denti e serrai i pugni. Avevo capito tutto anche senza sapere niente. Sferrai un pugno in faccia al primo: un ragazzo basso ma robusto e lo allontanai da una figura più piccola rannicchiata e tremante. “Ehi ma ...”, il secondo mi prese da dietro con una morsa al collo. Istintivamente gli tirai una gomitata alle costole, mi liberai e infierii con un calcio all’addome e due pugni sul muso. “Via!” urlò il primo. L’amico ancora stordito e sanguinante gli andò dietro zoppicante e nel giro di due secondi, il silenzio tornò a regnare. “Tranquilla, è tutto a posto”, dissi a colei che avevo salvato. Non si vedeva molto, ma mi accorsi subito che era una ragazza, molto spaventata e impaurita. Le sorrisi con il mio sorriso migliore e le porsi la mano. Lei prima guardò la mia appendice tesa e poi il mio volto. Tempo un paio di secondi per riordinare le idee, e la afferrò. Le vibrava con forza e la pelle era sbiancata più di un cencio. La sua piccola e fredda mano mi diede una scossa elettrica, e un brivido gelato mi corse ovunque quando ci toccammo. Nonostante tutto la tirai su, ma le ginocchia non le ressero e se non fosse stato per il mio torace ad un passo, sarebbe crollata a terra; gli occhi socchiusi e i lunghi capelli sul volto. “Stai bene? Ce la fai a camminare?” Non mi rispose, ma era evidente che la sua risposta sarebbe stata un no. “C’è nessuno qui?!?” urlai ai quattro venti. Solo la solitudine del nulla ad attanagliare quel vicolo e le strade vicine. “Come ti chiami?” Altro vuoto di parole, e la voglia di svenire della mia vicina sempre più prossima. “Devo chiamare la polizia.” Presi il cellulare dalla tasca sinistra e composi il numero. “No ...” La creatura che avevo protetto afferrò il telefono e mi fece abbassare il braccio. “Niente polizia.” Rimasi imbambolato per qualche secondo. Cosa fare in quei casi allora? Non lo sapevo affatto. Lasciarla in custodia alla discoteca non era un’idea saggia, soprattutto perché sembrava essere molto graziosa. La polizia era la scelta migliore, tuttavia lei sembrava voler scartare l’opzione.
Il dilemma era forte e il bandolo della matassa molto ingarbugliato. “Non so cosa fare ... qui non posso lasciarti. L’unica soluzione è portarti a casa mia.” Lo dissi nella mente, ma inspiegabilmente il pensiero mi uscì sottoforma di suoni. “Porca miseria!”, infuriai realizzando di aver combinato un pasticcio più grande di quello appena passato. “Mannaggia a me e alla mia boccaccia, si sarà fatta un’idea di me pessima! Il solito accattone di ragazze sporcaccione. Perfetto ...” Mi aspettai uno schiaffo o peggio, ma inspiegabilmente non accadde niente dei disastri da me immaginati. Voltai la testa e ne scoprii il motivo: era svenuta tra le mie braccia. Fortuna volle che per tutto il tragitto non incontrai anima viva. Camminare con quel peso sulle spalle non era il massimo, ma almeno sulla schiena un qualcosa di morbido mascherasse il tutto. “Accidenti! Basta pensare a certe cose!” Raggiunsi finalmente il mio appartamento e salii i tre piani con la sola forza della disperazione. “Ringrazierò mille volte il cielo che Hank sia in vacanza a casa dei suoi ...” Superai il corridoio e adagiai la ragazza sul divano del soggiorno. Accesi poi una lampada. Era splendida, viso angelico e tratti da modella. Le forme erano sinuose e le curve poste nel posto giusto e nella giusta misura. Capelli lunghi fino alle spalle di un biondo abbagliante e una bocca rosa incredibile. Ingoiai la saliva in un colpo solo e quasi mi strozzai. “Dannazione controllati Spencer! È svenuta e non la conosci affatto!” mi dissi tirandomi un pugno in testa. “A letto! Sì, devo dormire e non pensare a niente. Domani vedrò di fare qualcosa.”
Il giorno successivo, o per meglio dire; quattro – cinque ore dopo, mi svegliai di soprassalto. “Strano, non ho sognato ancora quella bambina”, dissi stropicciandomi gli occhi. “A proposito di femmine!” Balzai giù dal letto e andai in soggiorno. Non c’era nessuno! Le coperte erano state tolte e sistemate in un angolo del divano. Subito immaginai mille avvenimenti nefasti e apocalittici. Scappata, rapita da quei brutti ceffi del vicolo, e ... altre cose che è meglio non dire. Ad un tratto udii un rumore provenire dal bagno. Era uno scroscio d’acqua, la doccia. Tirai un sospiro di sollievo mentale e mi rilassai. Preparai con calma la colazione per due e attesi nel corridoio a braccia conserte. Non ci mise molto, giusto dieci minuti. Ad un tratto la porta si aprì e una piccola nube bianca invase il corridoio e i muri giallo sporco. Istintivamente mi mossi furtivo verso il salotto e mi buttai per terra per non farmi vedere. Non seppi fornire un spiegazione per quel gesto, istinto forse. Incredibile, mi stavo nascondendo in casa mia! Sbirciai. Capelli bagnati e il mio accappatoio addosso. Un salto al cuore mi rapì, indossava il mio accappatoio! Involontariamente tirai una gomitata allo stipite della porta. “Chi c’è?” Sobbalzai. “Accidenti, mi ha scoperto.” Non avevo niente da temere, è casa mia dopotutto. Mi feci vedere infine, sguardo basso in contemplazione del pavimento e un’espressione da ebete in volto. “Scusami, ma avevo proprio il bisogno di fare una doccia,” esclamò la ragazza con fare dispiaciuto. Spalancai la bocca dalla sorpresa e dall’incredulità. “F – figurati ...” replicai. “Dopo pulisco io”, dissi. “Grazie mille per ieri”, asserì l’angelo biondo. Fece un profondo inchino e i meravigliosi capelli mossi le caddero oltre la nuca. “Non so cosa ci facevo in quel posto, e non so nemmeno il motivo mi trovassi in quella città, ma ti sono debitrice mille volte per il tuo gesto.” Altre sorprese inattese. “Non ci pensare più”, avanzai agitando la mano per mandare via quelle parole così in necessarie e per me inattese. “Basta che sia tutto finito e che tu stia bene. A proposito ... posso sapere come ti chiami?” Non so perché, ma non appena posi questa petizione, la mia vicina si rattristò molto e chinò il capo con una bizzarra espressione addolorata. “Ti sembrerà strana come cosa ... ma non lo so.” Shock ovunque, quella risposta in me ebbe l’effetto di far sorgere un’infinità di domande nel mio cuore. “Come sarebbe? Hai perso la memoria?” volli sapere. “Non so cosa risponderti. Può essere.” La faccenda non mi piaceva affatto. Era troppo strano da credere; poteva anche essere uno sporco trucco per imbrogliarmi. Io per simili espedienti avevo un vero sesto senso, tuttavia, qualcosa mi diceva che quello non era un caso di quel tipo. Dovevo però stare in guardia e scoprire il più possibile su quella ragazza. Non la avevo mai vista prima; né in discoteca e nemmeno in giro o all’università. “Da dove vieni? Almeno questo lo sai?” domandai. “Scusa, dove sono i miei vestiti? Non vorrei rimanere in accappatoio per tutta la mattina”, scherzò lei sorridendo amabilmente dimenticando il broncio. Quando sorrideva era ancora più radiosa. Non seppi dirmi il perché, ma mi ricordava qualcosa. “Certo, vai in camera mia, te li porto subito”, dissi imbarazzato scordando magicamente tutte le domande che volevo fargli. Così ci lasciammo. Io tornai in salotto e raccolsi da sopra una sedia i vestiti che vi trovai. La mia misteriosa ospite invece, andò dove le avevo indicato e aspettò il mio ritorno. “Grazie.” Io mi nascosi dietro lo stipite della porta socchiusa rimuginando ancora, la ragazza invece ... beh, credo che stesse iniziando a vestirsi. “Emh, come posso chiamarti allora? Non sai il tuo nome e nemmeno che ci fai in questa città, come facciamo per comunicare?” chiesi. “A me sembra che comunicare non sia un problema”, sorrise lei distante. “Ma se proprio vuoi, prova a darmi te un nome, prometto che non mi lamenterò. Scegli bene però, non vorrei che in mezzo alla gente ti rivolgessi a me chiamandomi Genoveffa.” Scoppiammo a ridere entrambi. Era simpatica oltre che bellissima, con uno spiccato senso dell’umorismo. Iniziai a pensare ad un nome. Strano che mi avesse dato questo compito, ma ormai la stranezza faceva da padrone all’interno di quelle quattro mura domestiche. Voltai la testa pensieroso, e per uno strano gioco del destino, la mia attenzione ricadde sullo specchio che faceva da cornice al corridoio. Spalancai gli occhi impietrito. Si vedeva l’interno della stanza! Riuscivo a vedere il letto, il tavolino e la scrivania; ma soprattutto ... riuscivo perfettamente a vedere quella meravigliosa visione. Girata sulla destra che indossava solo l’intimo. Il cuore iniziò a battermi come un treno e divenni rosso più di un peperone. Fisico da modella statuaria, lineamenti perfetti senza una sbavatura e un viso da principessa delle favole. Chiunque avrebbe ucciso per avere quell’angelo nella propria stanza. Non sembrava essersi accorta di me; fortuna immensa dovetti ammettere. Afferrò poi il pantalone di jeans e lo infilò, infine, si voltò di spalle per prendere la maglietta. Fu allora che scoprii una cosa a dir poco shoccante. Sulla pelle che faceva capolino dalle spalle ... qualcosa di macabro era visibile. Due cicatrici lineari, sicuramente molto profonde, che partivano da sotto le spalle e percorrevano le scapole per intero scomparendo solo dopo di esse. “Che – che diavoleria è questa!” pensai immediatamente. Cosa significava tutto ciò? Torture cinesi? Una vecchia vita difficile che aveva lasciato segni indelebili su quella povera creatura? Non sapevo che dire. Una soluzione più fantastica e fantasiosa mi folgorò poi, ma non poteva affatto essere presa sul serio. “Allora? Sto ancora aspettando il mio nome”, avanzò lei da dietro la porta. Venni riportato alla realtà in modo brusco e i miei pensieri cessarono di caricare nella mente.
“A – Angelica ...” Lo pronunciai di getto e senza pensarci. Ad ogni modo, quella visione dipingeva perfettamente ciò che avevo formulato dentro: due ali d’angelo ... strappate. In quel momento la porta si spalancò completamente, e la ragazza si pose davanti ai miei occhi verdi e li scrutò avidamente con i suoi blu cielo. “E` un nome bellissimo, grazie.” Dopo quel momento parlammo moltissimo. Ci presentammo ufficialmente, e Angelica accettò il nome da me scelto. Non svelai la mia scoperta e non ebbi il coraggio di domandarle nulla. Non volevo avere niente anche fare con quella storiella da me fantasticata; magari, la tortura cinese era la triste verità. Ad ogni modo parlammo di tutto il resto. Gli raccontai praticamente tutto di me, della vita che facevo e di molto altro ancora. Strano a dirsi, ma Angelica sembrava essere molto interessata alle mie parole, e ad ogni mio intervento voleva sapere dettagli e retroscena, come se si nutrisse solo delle mie sillabe. Per quanto riguardava la sua vita invece ... Angelica non seppe dirmi niente. Mistero su tutto. “Non so dirti da dove io venga né dove andrò, so solo che ho un compito da svolgere, ma tuttora non conosco quale esso sia,” asserì quando le posi la domanda. “Compito?” replicai io. “Una missione intendi?” La ragazza rise. “Possiamo chiamarla così se ti piace.” Senza che lo percepissi, si era fatto tardi. “Dannazione! Sono le undici, devo andare in facoltà!” urlai balzando in piedi, spaventando la povera Angelica. “Facoltà? Cosa sarebbe?” domandò stranita. “L’università, devo andare in classe.” Lei mi guardò di sbieco non capendo, ma non avevo tempo per spiegare. Bizzarro che non sapesse cosa fosse un’università; ma archiviai il tutto colpevolizzando interamente la sua amnesia. Dieci minuti, e fui pronto per uscire, cartella alla mano e cuffie nelle orecchie. “In frigo ho qualcosa da mangiare, serviti pure con quello che più ti piace. Pomeriggio passerò dal supermarket e comperò qualcosa di meglio”, dissi incespicando nei lacci delle scarpe. “Non posso venire con te? Mi sento strana a stare da sola e ho ancora paura per quello che mi è successo ieri.” La giovane lo disse piano e con occhi bassi. Ripensava sicuramente a quella brutta esperienza. Sfortunatamente, non acconsentii. Non ragionai molto sulla cosa, ma sapevo che ero in un ritardo mostruoso e che non potevo permettermi di saltare lezioni, non le prime due perlomeno. “Mi dispiace ma ti annoieresti a sentire parlare di chimica e statistica, sono due materie che nemmeno io capisco bene. Finiresti per peggiorare la tua amnesia te lo garantisco.” Detto questo, serrai piano la porta, girai la chiave e scesi le scale. Per precauzione chiusi tutte le cose di valore dove non poteva trovarle. Gentile e amichevole ok, ma stupido e ingenuo mai. Arrivai in facoltà con solo cinque minuti di ritardo, ma per fortuna il professore non era ancora in classe. Riuscii così a rilassarmi e a sedermi accanto a Jason. Iniziammo a parlare del più e del meno. Discutendo, arrivammo su un argomento piuttosto scottante. Ero conscio del pericolo, ma volevo avere la sua opinione. “Jason, dimmi una cosa: cosa faresti se una ragazza con fisico da modella e lineamenti d’angelo fosse a casa tua e avesse perso la memoria completamente e non sappia chi sia o cosa faccia lì da te?” Il viso dell’energumeno al mio fianco si aprì e gli occhi si illuminarono di una luce strana. “Mi pare ovvio fratello; ne approfitterei immediatamente!” esclamò senza ripensamenti di nessun tipo. Io sospirai pesantemente. “Ne ero certo”, dissi sconsolato. “Beh, da come la vedo io, è una cosa normale, chiunque lo avrebbe detto. Spencer siamo uomini, è nel nostro DNA!” Solo il mio DNA aveva qualche anomalia dunque. In quell’esatto momento il professor De Finis entrò in classe e il discorso terminò lì, fortunatamente aggiungerei. Due ore di chimica delle particelle scivolarono senza problemi. Ero bravo in chimica e mi piaceva come quell’uomo basso e lievemente stempiato raccontava i misteri della natura. Tre ore dopo; una pausa finalmente. Il ritrovo preferito da tutti erano le macchinette dell’istituto. Inutile dirlo, ma avevo bisogno di un panino. Io e Jason ci incamminammo e giungemmo in un minuto davanti al distributore, ma arrivati lì, ad un tratto mi fermai piantando direttamente le scarpe nelle mattonelle del pavimento. Davanti a me, c’era Angelica. Mi precipitai immediatamente da lei. “Cosa diavolo ci fai qui? Ti avevo detto di rimanere a casa!” Angelica si spaventò un po’ per il mio tono e fece un passo indietro coprendosi il viso con le mani. “S – scusa, ma avevo paura a rimanere a casa da sola, volevo rivederti ...” Il mio cuore sobbalzò pietrificato. Quella frase giunse come un fulmine a ciel sereno e quasi persi l’uso della parola. “Fratello! Allora la tua storiella era vera. Nascondevi davvero una modella a casa tua!” esplicò Jason esterrefatto. Subito fece sfoggio del suo modo d’essere e delle sue avance, ma sfortunatamente, (o forse dovrei dire fortunatamente) Angelica non ci badò, anzi, sembrò esternare timore nei confronti del mio amico. Beh, a prima vista era anche cosa normale. Non era certo il ritratto del principe azzurro e la sua stazza e la sua presenza facevano paura a molti. “Andiamo via”, ordinai ad un tratto. Le presi la mano e la trascinai fuori. “Spence! Cosa fai abbiamo lezione tra poco!” mi urlò dietro Jason. “Scusa amico, ma non posso lasciare le cose come sono, prendi appunti per me per favore!” Uscimmo dall’ampio portico del settore U2 e, mano nella mano, ci incamminammo verso l’ignoto. “Spencer, dove andiamo?” volle sapere la mia compagna di pazzie. “Non lo so, lontano da qui.” Avevo lasciato in classe la cartella e ogni cosa, fortunatamente ero uscito leggero, e visto che era quasi giugno, non avevo bisogno d’altro che del mio marsupio con dentro l’indispensabile. “Scusa se sono uscita senza dirti niente, ma non sapevo come rintracciarti, così ... ti ho seguito. Scusami.” Mi fermai e mi voltai. Era veramente bellissima anche con il broncio, soprattutto se quella luce calda e vagamente fastidiosa le irradiava i capelli. Un spirito celeste sotto ogni punto di vista. “Non fa nulla, non ti preoccupare.” Sospirai ancora. “Avrai fame, che ne dici se mettiamo qualcosa sotto i denti?” Angelica sorrise come non aveva mai fatto; gli occhi gli si aprirono e il viso intero le si illuminò. “Sì!” Mi afferrò il braccio e lo strinse a sé con allegria e forza, e insieme, ci incamminammo verso il primo locale che avremmo incontrato sulla nostra via che conduceva al nulla. Trovammo una simpatica trattoria poco distante dalla strada principale, e insieme pranzammo allegramente. Sembrava un vero appuntamento. Il tutto partito dal nulla, con una perfetta giornata tipo all’università, era sfociata in un appuntamento con una ragazza magnifica e sconosciuta. In molti si girarono per vedere la ragazza al mio fianco, e più di una coppia si voltò con invidia per ammirare colei che avevo accanto. Pian piano, il mio cuore di pietra si stava rompendo ... per un angelo incontrato meno di dodici ore prima. Dopo pranzo, verso le cinque del pomeriggio decisi di terminare quella gita in grande stile. “Vieni con me.” Tagliammo la strada e imboccammo una decina di stradine secondarie che pochi conoscevano, e dopo venti minuti, giungemmo in un magnifico parco. Era grande e coperto di verde. Gli alberi rigogliosi ondeggiavano placidi sotto una piacevole brezza estiva e uno specchio d’acqua rifletteva un motivo a mosaico del tutto. Veramente magnifico e suggestivo. “Ti piace?” domandai aggrappandomi alla ringhiera che proteggeva il lago. “Incantevole, veramente magico”, ammise in contemplazione. Si avvicinò a me e insieme ci sedemmo su una panchina. “Amo veramente i paesaggi come questi, incontaminati e pieni di vita”, disse Angelica. “Allora vedi che abbiamo recuperato un frammento della tua memoria?” scherzai io. “Già, così sembra”, replicò l’angelo ridendo leggermente. “In passato, andavo tutti i pomeriggi a giocare in un parco vicino casa, era esattamente come questo”, resi noto in ammirazione della natura. “Mi sembra ... che anche io ero solita giocare in un parco. Mi sembra che ... il mio divertimento preferito fosse ... giocare con la sabbia e le altalene”, esclamò pensierosa. A quel punto scattai in piedi, spalancai la bocca e un sudore freddo e incontrollabile mi pervase. “Non è possibile!” Le presi le spalle e la scossi leggermente domandandole: “Dove abitavi prima? Possibile che da bambina abitassi in una cittadina chiamata Lancaster?”
“Non mi ricordo”, rese noto lei leggermente spaventata dal mio repentino cambio d’umore. “Sicura?” insinuai. “Magari se ti sforzi leggermente potresti ricordare!” Per me era importante, perché qualcosa nel mio cervello si stava attivando. Possibile che quella ragazza fosse la bambina della mia infanzia? Colei che non vidi più? In fondo, la mia città natale non è lontana da San Diego, magari si era trasferita e solo ora siamo riusciti a tornare insieme. Dovevo saperlo. Ad un tratto però ... Angelica si prese la testa con le mani e le spalle le cominciarono a tremare vistosamente. “La mia testa! Mi fa male!” Immediatamente la liberai di riflesso. “S – scusami, non volevo forzarti.” Pian piano Angelica si riprese, ma il suo tremolio si spense solo cinque minuti dopo. Le avevo chiesto evidentemente troppo. “Torniamo a casa. Si sta facendo tardi.”
Quando aprii gli occhi, ero in strada. Me lo ricordavo benissimo quel viale, era la strada dirimpetto a casa mia. Ad un tratto, mentre ero in contemplazione di quel ricordo, una macchina rossa mi passò di fronte e sfrecciò rapida oltre la mia persona. Iniziai a corrergli dietro. Urlavo un nome a squarciagola; ma purtroppo, non riuscivo ad udire nulla, la mia voce era soffocata dal silenzio. Tendevo la mano verso quella vettura e gridavo sempre più forte, piangendo. Ad un certo punto, prima che la macchina scomparisse dietro l’angolo, un corpicino piccolo e biondi riccioli si sporsero oltre il finestrino per metà abbassato. “Spencer!!” Riuscii a udirlo bene, ma solo il mio nome venne pronunciato nel mio sogno. Un lampo dorato seguì, per spegnersi solo dopo quel semaforo. Mi svegliai. Ansimavo e gocce di sudore mi grondavano dalle guance.
“Ancora quel sogno ...” mi passai la mano sulla fronte, ma scoprii che lì non ero bagnato. La passai sotto gli occhi, ed ecco che il sudore abbondava. “Ma che diavolo!” Non era sudore, erano lacrime. Stavo piangendo! Poggiai la testa sul cuscino e pensai. “Cosa mi sta succedendo in questi giorni?” Mi accorsi poi che le lacrime sgorgavano ancora fuori controllo e cadevano copiose sul cuscino. Ma ciò che veramente mi sorprese, lo appresi poco dopo. Avvertii un peso sul mio addome. Mi voltai, e con mio sommo stupore vidi Angelica accanto a me, sdraiata sul letto. In quel momento di smarrimento, non sapevo come comportarmi. Ero come in trance e la mente mi si era svuotata di tutto. Quando angelica si sarebbe svegliata, io sarei già stato lontano. Le avevo lasciato un biglietto sul tavolo accanto alla colazione: Sono andato all’università, non cercarmi. Spencer. Me ne andai sgattaiolando fuori come un ladro; mai avrei creduto di poter fare una cosa tanto indecorosa. Ad ogni modo, dovevo riportare un po’ di equilibrio nel cervello, e rimanere fuori per prendere aria. Le tre ore di università non le feci col cervello sulle spalle. La presenza del mio corpo era accanto a Jason come sempre, ma il cuore e la mente erano altrove, ovunque quella ragazza non sarebbe mai arrivata. Solitudine e riflessione: due parole di cui avevo un disperato bisogno. Dopo aver finito di “Studiare”, pranzai alla mensa dell’istituto, e passai buona parte del pomeriggio al parco; lo stesso in cui il giorno prima avevo portato Angelica. Riflettevo e pensavo, pensavo e mi scervellavo. Facevo la spola tra la panchina vicino al laghetto e le altalene dall’altra parte del parco. Mi dondolavo piano pensando all’infanzia, cercavo di focalizzare quel volto sognato più volte e mai afferrato appieno. Possibile che fossero la stessa persona? Possibile, ma era davvero questo ciò che mi era successo? Ritrovare quella persona a distanza di così tanti anni e non sapere nemmeno se lei sia davvero lei? L’amnesia poi era strana e complicava le cose. Non so se sarebbe mai passata, ma dovevo fare di tutto affinché Angelica riacquistasse i ricordi perduti; e magari ... i miei avrebbero seguito la stessa strada. Erano le sei circa quando decisi di fare ritorno a casa, Angelica sarebbe stata molto in ansia per me, ne ero sicuro. Decisi così di comprare qualcosa per cena. Non conoscevo i suoi gusti, ma per certo un po’ di carne e qualche patatina fritta non le avrebbe rifiutate. Dopo una rapida rapina al supermarket intrapresi la via di casa, quando ... “Ei tu, hai un minuto?” mi domandò una voce da dietro le spalle. Mi voltai e trovai un tizio con un occhio nero e un ematoma sulla guancia che mi guardava in cagnesco. “Tu chi saresti? Scusa ma avrei una certa fretta”, dissi io ricominciando a camminare. Ad un tratto una mano mi afferrò forte il polso. “Allora non hai capito amico, ho bisogno di parlarti.” Immediatamente da un vicolo vicino spuntarono altri cinque brutti ceffi, brutti e con sorrisi poco rassicuranti sui visi. “Si può sapere chi diavolo saresti tu? Non ti ho mai visto”, asserii. “Strano, l’altra notte non avevi avuto bisogno di conoscere niente prima di farmi questo”, ribeccò il tizio di prima mostrando l’occhio nero e l’atro ricordino bluastro. “I teppisti del vicolo! Quello che stavano importunando Angelica!” esclamai nella mente ricordando il tono di voce di colui che mi parlava. Riconobbi successivamente anche l’altro elemento quando esternò ghignando: “Non ci è piaciuto come ci hai trattato l’altra sera ... preparati a ricevere la tua ricompensa con gli interessi.” Feci involontariamente un passo indietro, sapevo perfettamente cosa sarebbe accaduto; soprattutto perché in quel momento l’isolato era deserto. Venni immediatamente afferrato per il collo e trascinato nell’oscurità. “Lasciatemi canaglie! Ve la farò pagare cara!” infuriai cercando di liberarmi dalla calca venutasi a creare. Caddi a terra di schiena e un cassonetto mi accolse rovesciandomi addosso una montagna di rifiuti. I miei aguzzini risero a crepapelle vedendomi in quello stato. “Esattamente il posto più consono per un rifiuto come te”, incalzò il primo delinquente. “Maledetto!” dissi digrignando pugni e gengive. Partii all’attacco con il pugno teso contro la prima anima che incontrai, ma venni facilmente intercettato e abbattuto nuovamente. “Oh, abbiamo anche voglia di combattere ...” Altra risata. Uno del gruppo tirò fuori un piede di porco, mentre il suo vicino esibì un tirapugni. Un brivido atroce mi scese lungo la schiena portando via con se buona parte del mio coraggio e voglia di oppormi all’inevitabile. Alla fine, colui che mi aveva rivolto la parola per primo, tirò fuori dal gilet di jeans una lunga catena. La alzò alta sopra la testa e urlò: “Preparati a ricevere la tua punizione!” Chiusi gli occhi senza avere il coraggio di vedere il volto della morte. Qui si vedeva il vero volto di un uomo, nei momenti precedenti all’epilogo; durante quei pochi istanti che avrebbero portato via qualcosa di essenziale, come ad esempio l’esistenza. Confesso che per tutta la vita ho cercato di far credere agli altri che il pensiero della vita oltre la morte non mi interessasse, e che non mi faceva paura la triste signora dal nero mantello, ma ... ora che quasi riuscivo a vedere la sua falce, non potei fare altro che pregare. “Che qualcuno mi salvi ...!” Il braccio calò bruscamente. Era finita. “Fermo!” l’energumeno si bloccò all’istante e gli altri scagnozzi con lui. La catena ciondolò ad un passo dal mio naso. Potei udire perfettamente il suo stridulo e sinistro suono, ma non la sua forza schiacciante; fortunatamente direi. Aprii gli occhi, e con sorpresa scorsi la persona che più di tutti mai avrei voluto vedere. “A – Angelica! Che ci fai qui? Scappa!” ordinai. “Oh, guarda chi si è aggiunta”, asserì il bestione. Mi lasciò cadere a terra e si diresse sulla povera ragazza con passi pesanti e gonfiando il petto più che poté. La gracile creatura arretrò di un passo, ma si dimostrò molto coraggiosa a non mostrare emozioni. L’armadio le prese il mento e la osservò con fare animalesco. La mia rabbia non poté più essere sedata, e allora esplose. Urlai e con la forza della disperazione mi avventai contro il mio nemico. Subito altri cercarono di bloccarmi, ma fu inutile, atterrai chiunque mi si parava davanti con una carica bestiale che mai avrei pensato di avere. Piegai le falangi e strinsi il pugno destro pronto per abbattere quel mostro. Tuttavia, lui fu più rapido di me e con una torsione del busto mi colpì in pieno volto con un montante durissimo. Volai indietro come un sacco di patate, e un pugno al ventre mi atterrò definitivamente. “Spencer!” urlò Angelica cercando di raggiungermi. “Stai buona, abbiamo qualcosa da finire io e te”, disse prendendole il braccio. “Lasciami andare!” esternò lei, e con forza tirò uno schiaffo al personaggio, infierendo anche con le unghia lunghe. Un altro urlo si levò e il gorilla barcollò indietro con la faccia tra le mani mentre iniziava a grondare sangue. Angelica si piegò su di me e cercò di sollevarmi, ma non servì, perché nuovamente il bestione tornò alla carica. Ghermì la sua preda e in uno scatto d’ira mista a disprezzo scaraventò Angelica contro il muro. Colpì la testa, e la giovane si accasciò a terra priva di sensi. “NO! Angelica!!!!” gridai al colmo della disperazione. “E` solo colpa tua se è accaduto!” tuonò il neo assassino. “Se tu non fossi sopraggiunto quella notte nulla sarebbe accaduto! È colpa tua se ora questa ragazza è morta!” Tremava vistosamente per via dello shock e della rabbia ancora zampillante. Io ero a terra e non potevo muovermi, ma se solo avessi avuto ancora energie in corpo ... avrei fatto in modo che nessuno mi potesse fermare. Il personaggio riprese la catena e tornò ad occuparsi di me. “Ora la raggiungerai ... così almeno potrai stare a lei e conoscerla meglio ... nell’altro mondo!” Denti digrignati e ancora voglia omicida nei suoi occhi scuri e scavati. Voleva completare il suo disegno, anche se il finale era stato abbondantemente cambiato. Ancora una volta mi ritrovai ad un passo dalla morte, ma ... ancora una volta, un miracolo mi salvò. Una luce bianca folgorante si manifestò davanti a me, una luminosità paradisiaca, come se il paradiso stesso mi stesse per accogliere. Non sapevo se stessi sognando o se fossi ancora sveglio, ma non riuscii a vedere altro se non una sagoma immacolata che avanzava, e il mio pseudo assassino fermo, chino su di me immobile. Un attimo dopo, quest’ultimo venne violentemente sbalzato lontano dalla mia vista e un vento caldo disperdette il pericolo oltre me. Un secondo, e anche gli altri personaggi subirono lo stesso trattamento, divenendo quadri appesi al muro del vicolo. “Cosa diavolo è?!?” sentii urlare. “Non lo so, ma mi sembra un fantasma! Via!!” Un momento dopo, tutti quanti scomparvero e rimasi solo. Il silenzio e la solitudine; il loro dolce canto lo avevo dimenticato. Ad un tratto, udii una voce gentile e calda chiamarmi. Mi voltai verso quel suono simile ad un flauto, tuttavia gli occhi mi si chiudevano e un’ombra non nitida mi separava dalla realtà. “Spencer ...” udii ancora. Avvertii poi chiaramente una mano sollevarmi la testa dalla polvere e in seguito la nuca venire poggiata su di un cuscino, caldo e suadente anch’esso. La luce chiarissima tornò, forse perché stavo pian piano riprendendo il controllo del corpo.
“Chi sei?” dissi incantato. “Va tutto bene ora, sono con te.” Infine, riconobbi il volto di Angelica.
Mi guardava con amore e gentilezza e mi accarezzava i capelli radi con la mano mentre riposavano sulle sue ginocchia. “A – Angelica? Ma tu ...” balbettai sotto shock. Lei non disse nulla, accarezzava il mio volto e sorrideva. Mi accorsi che il dolore pian piano passava, e il sangue che esibivo sul volto veniva riassorbito e le ferite risanate. Aprii gli occhi definitivamente e le energie bussarono nuovamente alla mia porta. Osservai. La luce e quel chiarore provenivano dalla ragazza di fronte a me! Mi alzai di scatto sbilenco e mi allontanai di un passo. Misi istintivamente una mano sulla bocca per frenare l’urlo che stavo per emettere a causa della sorpresa. Angelica era davanti a me, magnifica e bellissima come sempre; non era ferita e nemmeno un capello era fuori posto. Solo che ... indossava una lunga veste bianca splendente e una corona di fiori sulla testa; ma la cosa che più catturò la mia attenzione, erano due oggetti. Due grandi e candide ali bianche sulla schiena. Scrutai prima loro con stupore, ma poi esaminai avidamente l’insieme con aria smarrita. Possibile che ... Angelica fosse realmente ... un angelo? No, era solo una stupida messa in scena, qualcuno aveva orchestrato per il meglio ogni cosa fin nei minimi dettagli. Forse Jason, magari David, o ... chissà chi altro. Non potevo, e non volevo crederci. “Spencer, stai bene?” Mi domandò l’essere mascherato. Non risposi subito, le emozioni si accavallavano ed erano troppe. “Vedo che sei alquanto sorpreso”, rise lei. Annuii semplicemente. “Spencer, io sono quello che vedi”, esclamò indicandosi con le mani. “A – allora tu ...” farfugliai ancora. “Ho ritrovato la memoria Spencer”, aggiunse vedendo la mia titubanza. “Quel colpo alla testa mi ha fatto ritrovare i ricordi e ogni cosa perduta.” Silenzio snervante da ambo le parti. “Non ci capisco più niente.” Angelica rise nuovamente. “Sai, la missione accennatoti, ho ricordato anche questo e il motivo per cui sono venuta in questa città. Eri tu il mio motivo, eri tu il dovere che dovevo assolvere”, asserì con tranquillità e solarità. Il chiarore aumentò e quasi mi costrinse a proteggermi con la mano. “Cosa vuoi dire?” domandai. “Sono stata impedita e attaccata al mio arrivo sulla terra. Dopo quell’esperienza persi ogni cosa, in particolar modo la memoria e i miei ricordi. Quando poi mi salvasti e mi portasti da te, una minima porzione del totale riaffiorò, ma dovetti attendere a questo momento per concludere la missione e riappropriarmi di quanto smarrito”, rese noto. “Di cosa si trattava?” volli sapere. “Ricambiare il favore”, esternò lei raggiante. “Che favore?” chiesi. “Una gentilezza mostratami tanti anni fa, e che non ero mai riuscita a ricambiare.” Fece un passo avanti e si accostò al mio viso, un angelo sotto ogni punto di vista. “Spencer, io ora devo andare.” Il mio cuore si fermò e andò in catalessi. Non seppi dire il perché, ma sentivo un dolore lancinante trafiggermi. “C – come andare? Mi lasci così di punto in bianco?” Lei si rattristò lievemente, ma riuscì subito a ritrovare il sorriso. “Purtroppo sì, ma non crucciarti, io sarò sempre con te e ti proteggerò in ogni momento. Mi sentirai vicina nei momenti bui e accanto nei giorni del bisogno; sarò il tuo ... angelo custode.” Lei mi abbracciò forte e un calore immenso, non umano, mi invase. Mi sentii in paradiso, con lei accanto a mostrarmi i suoi cortili. “Grazie per aver condiviso ogni cosa, grazie per avermi salvato, grazie per avermi dato il tuo amore e la tua amicizia, e ... grazie anche per i bei ricordi che ho di noi due. Non li scorderò mai. Questo volevo dirti, ringraziarti per tutto e ...” Di punto in bianco, Angelica si avvicinò maggiormente e mi baciò. Il tifone delle emozioni mi rapì di nuovo. Calore, amore, felicità, eterna gioia e altro che non saprei come dipingere. Due lacrime argentee mi scivolarono dagli occhi stanchi e avidi di felicità. Paradiso eterno e letizia senza fine. Era questo che significava morire e andare in cielo? Forse sì, perché era così che mi sentivo, ed era questo che provavo e che volevo provare. Quando ci separammo, scoprii che tra i sorrisi di Angelica e il mio da ebete, anche lei versava lacrime. Mi abbracciò nuovamente. “Questo è il secondo bacio che ti do, ma il secondo è meglio del primo. Grazie, per tutto ... Spence.” Chiusi gli occhi e serbai nel cuore quelle emozioni intense. Tuttavia, ad un tratto sentii che dalle mie braccia avvinghiate nelle sue spalle, qualcosa stava venendo a mancare, pian piano, qualcosa mi stava venendo sottratto. Spalancai le palpebre e non vidi più nessuno, Angelica era sparita, e solo poche particelle luminose rimanevano di lei, particelle che poi salirono verso il cielo come faville di un fuoco. L’avevo a prima vista persa per sempre. Caddi in ginocchio e piansi urlando, proprio nel mentre una leggera pioggia iniziava a scrosciare mitigando le mie lacrime. Non sapevo cosa pensare né cosa dire, ero sconvolto e incredulo. Angelica era davvero un angelo, e da quello che avevo capito, era anche la bambina della mia fanciullezza. Durante il ritorno a casa, mani in tasca e capo a terra, non riuscii a formulare pensiero, e giunsi al mio appartamento con la sola forza dell’inerzia. Il mio pianto ancora non cessava, ma le lacrime stavano scemando, forse per via del mio corpo completamente fradicio che le aiutava ad allontanarsi, o forse perché non ne avevo più; le avevo versate tutte. Ad un tratto, giunto davanti al portone, ad attendermi trovai l’ennesima sorpresa di quel giorno colmo di eventi straordinari. “Mamma? Cosa ci fai qui?” domandai stupito. Era una donna piuttosto bassa, carnagione chiara, occhi uguali ai miei e capelli ricci rossastri. “Era da tanto che non ci vedevamo figliolo”, iniziò lei avvicinandosi aprendo l’ombrello. “Avevo voglia di vederti.” Socchiusi la bocca dalla sorpresa, ma non dissi nulla. “Vuoi farmi entrare oppure dobbiamo soggiornare qui per tutto il pomeriggio?” scherzò mia madre con tono ironico. Ci accomodammo in soggiorno, lei allegra e solare, io invece cadaverico e pallido. “Ti vedo dimagrito e piuttosto pallido Spencer, sicuro di mangiare abbastanza?” domandò preoccupata. “Mamma, qual è il vero motivo della tua visita? Non sei mai venuta a trovarmi in questi anni di università, poi di punto in bianco piombi qui solo per fare due chiacchiere con me? Dimmi, cosa c’è?” Mia madre chinò la testa imitandomi, e sincera asserì: “Sai, ci sono momenti nella vita, in cui una madre capisce che suo figlio possa passare periodi difficili. Non so cosa sia accaduto, ma sento dentro che quel momento sia arrivato. Dimmi Spence, c’è qualcosa che non va a scuola o nella vita?” domandò la donna con apprensione e sincera preoccupazione. A quella dichiarazione, la mia depressione aumentò di profondità e di dolore. Pensai all’intera faccenda; al primo incontro, alla splendida vacanza avuta con lei, e alle parole vibranti che Angelica mi rivolse prima ... della sua scomparsa. Passarono diversi minuti di silenzio, attimi di stallo e di indecisioni, attimi di verità taciute e di emozioni nascoste. Come potevo raccontare ciò che ho vissuto? “Vado a preparare una cioccolata calda, con questa pioggia e questo freddo non ci farà male”, esclamò notando la mia scarsa voglia di parlare. “Mamma, ti ricordi la mia infanzia?” Lei si voltò e cambiò seppur di poco espressione divenendo più solare. “Eri un veri birbante”, raccontò. “Facevi di tutto pur di scappare da me ed andare a divertirti con i tuoi amichetti. Sai quanto ci facevi preoccupare, e quante sgridate e botte da tuo padre.” Sorrise nuovamente. “Ti ricordi di una mia amica di quegli anni? Una bambina bionda con capelli lunghi e ricci?” L’espressione della donna davanti a me mutò ancora ritornando oscura e mostrando un pizzico di sorpresa. “T – ti ricordi di lei?” Annuii serio. “Spence, non ho voglia di parlarne.” Si rincamminò verso la cucina. “Mamma, è importante. Voglio sapere di lei.” Sospirò colpita e stordita dalla domanda, ma dopo aver colto nel mio volto l’intenzione di conoscenza, non poté opporsi al richiamo. Sospirò chiudendo le palpebre per raccogliere le idee. “Era figlia della nostra vicina a Lancaster, la mia migliore amica. Voi due siete stati amici per la pelle per molto tempo, giocavate sempre insieme e durante le belle stagioni stavate sempre al parco a divertirvi con altri bambini. Avevate circa quattro – cinque anni.” Mia madre si interruppe bruscamente e il suo umore divenne molto simile al mio. “Accadde qualcosa?” incentivai io. “Lei è sempre stata cagionevole di salute, e per via delle necessità legate alle sue esigenze, la famiglia decise di trasferirsi in un’altra città.” Altra triste pausa. Tu la prendesti malissimo e piangesti fino alla fine. Eravate molto legati e quando apprendesti la notizia non mangiasti e non dormisti per un giorno intero, piangesti e basta. Ci facesti preoccupare moltissimo”, sussurrò. “Scusami.” Mia madre sospirò e mi abbracciò. “Rincorresti la loro macchina fino allo spasmo per impedire l’allontanamento di quella famiglia, ma inutilmente. Non la rividi più e perdemmo i contatti con loro.” La storia terminò lì. Eppure ... qualcosa nel mio cervello gridava che un dettaglio mancava. “E` morta, dico bene?” La donna si alzò di scatto e si allontanò involontariamente da me paralizzata dalla mia dichiarazione. “Come puoi dirlo?” volle sapere.“Mamma, dimmi la verità, per favore”, supplicai con un filo di voce. “Durante il viaggio, lo stesso prima descritto, un pirata della strada tagliò la strada alla loro vettura.” Pausa straziante. “Fu una carneficina, l’intera famiglia morì sul colpo. Inutile fu la corsa in ospedale.
La bambina perì durante il tragitto, ma durante quei pochi attimi, quando appresi la notizia e mi precipitai in ospedale, i medici mi dissero che non gridava altro che un nome: Spencer.” Un brivido gelido mi corse lungo la schiena e la pelle d’oca mi colse impreparato. “Non ci credo ...” Mia madre mi abbracciò nuovamente, esattamente come fece Angelica mezzora prima. “Spencer, mi dispiace di avertelo tenuto nascosto, ma era meglio così. Eri troppo piccolo per comprendere, e non volevo che la tua infanzia fosse macchiata da una tragedia simile. Perdonami, ti prego.” Le lacrime tornarono a bagnarmi gli occhi. Non le frenai e le lascia scorrere libere. Quella era la vera verità dunque, l’intera storia era ora davanti a me: una tragedia che veniva riportata a galla da una volontà superiore di rinascita e affetto. La voglia di ricambiare un’amicizia stroncata prematuramente e un rapporto interrotto da un evento funesto. Il favore da ricambiare accennatomi da Angelica, non era il salvataggio da quei teppisti quando ci conoscemmo, ma la gratitudine e l’amicizia mostratagli da bambina durante la nostra giovinezza. “Come si chiamava?” volli sapere. “Angelica. Il nome rispecchiava pienamente quella bambina, era veramente bellissima, un amore. Se fosse cresciuta, sarebbe diventata una creatura splendida.” Mi asciugai gli occhi e con un sorriso e gli occhi limpidi affermai: “Hai ragione, era veramente un angelo.”

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